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ANGEL MOYA GARCIA

Metronom: Curatore, ricercatore, giornalista, dal 2012 sei co-direttore per le arti visive alla Tenuta dello Scompiglio a Vorno (Lucca), e all’inizio di marzo 2020 sei stato nominato responsabile della programmazione delle attività di arti performative e culturali del Mattatoio di Roma. Che cosa della tua esperienza allo Scompiglio hai portato a Roma e quali nuove opportunità di sperimentazione ti offre invece il Mattatoio?

Angel Moya Garcia: L’esperienza all’interno dello Scompiglio mi ha portato a maturare una particolare attenzione ed esperienza nell’ambito della trasversalità dei linguaggi anche in relazione a un contesto naturale. Abbiamo costruito la nostra mission proprio su questo concetto e nel corso degli anni abbiamo invitato un numero consistente di artisti a confrontarsi con altri ambiti di ricerca, riflettendo sui confini che etichettano e codificano le aree per provare, se non ad abbatterli, almeno a spostarli, a minimizzare la loro rilevanza e a riconfigurarli. La situazione a Roma è molto diversa per varie ragioni. Nel contesto del Mattatoio già erano stati delineati gli indirizzi programmatici da parte dell’Azienda Speciale Palaexpo ed era in fase di costruzione un polo di ricerca sul performativo. Il mio lavoro in questi mesi si è concentrato nell’attuare e veicolare questi indirizzi attraverso una ricerca sulle convergenze tra arti visive e arti performative. Mi interessava l’idea di costante movimento, trasformazione ed evoluzione sia da un punto di vista dell’allestimento che soprattutto dei contenuti, eliminando a priori un taglio più classico di costruzione di una mostra. Da un altro lato, al Mattatoio oltre alle restituzioni formali aperte al pubblico esiste una particolare attenzione alla formazione, già avviata in modo esemplare con il Master PACS che si svolge a La Pelanda, e questo è un ambito che mi interessa particolarmente e che si può declinare o adattare a tante tipologie di pubblico.

M: Questi due luoghi hanno una connotazione e una natura molto diversa: Come la tua ricerca e la tua pratica curatoriale riescono a inserirsi e a modularsi in rapporto al contesto in cui ti trovi a operare?

AMG: Credo che ogni singolo curatore, così come ogni singola persona, debba ascoltare il luogo in cui si trova, studiare le caratteristiche fisiche e mentali di quel contesto, come si presenta sia fisicamente che sul web, la tipologia di pubblico che lo frequenta e le condizioni del territorio in cui si inserisce per poter viverlo e saper sfruttare tutte le risorse che esso mette a disposizione. Il mio lavoro si concentra, prima di sviluppare qualunque progetto, nel passeggiare nei dintorni del luogo, attraversandolo e osservandolo da ogni prospettiva, dialogando con le persone che lavorano nei negozi, nei bar o nei ristoranti vicini per capire come lo hanno vissuto fino ad ora e di conseguenza per poter trarre conclusioni sulle criticità in modo da partire da queste.

M: In questo particolare momento di ridefinizione di luoghi e modalità di fruizione dell’arte contemporanea, in cui gli spazi fisici dell’arte sono accessibili con forti limitazioni, pensi che la rete possa offrire strumenti e opportunità per agire nello spazio pubblico eridisegnare il nostro rapporto con esso?

AMG: Mi rendo conto che forse per mentalità, per mia limitazione o per la mia appartenenza a una determinata generazione, non riesco a immaginare l’arte senza che questo abbia un qualunque appiglio a una fisicità. Ovviamente non parlo qui di progetti nati in rete o dell’uso delle nuove tecnologie che ormai sono state sdoganate e riconosciute culturalmente anche negli ambiti istituzionali. Vedo con una certa invidia come tanti colleghi e tanti artisti sono riusciti in questo periodo a lavorare con una certa normalità, lavorando con la rete per studiare nuovi modelli di fruizione, determinando nuovi spazi e relazioni, mentre io rimanevo quasi immobile cercando solo qualche spruzzo di concentrazione nell’attesa di poter ritrovare una certa normalità.

M: Lo spazio virtuale può a tuo parere essere visto come un ampliamento di campo di azione delle pratiche performative e d’interazione fra i corpi? Come la performance, nelle sue declinazioni, può sfruttare le opportunità offerte dal digitale? Ci potresti segnalare un progetto virtuoso che è nato o ha trovato modo di svilupparsi nel corso di questi recenti mesi?

AMG: Come ho accennato in altri contesti, in questi ultimi mesi abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a una bulimia di attività culturali in streaming e credo spetti a ognuno di noi accettare o meno il rischio che queste possano diventare mero intrattenimento culturale o che possano essere utilizzate soltantoin modo consolatorio da parte del pubblico. Personalmente dubito che reale e virtuale debbano andare in contrasto, anzi, sono convinto che siano piani paralleli di comunicazione interpersonale, che si sostengono reciprocamente, ma ognuno con specificità proprie. Proprio per questo credo che uno non possa sostituire l’altro. Una mostra, uno spettacolo o un concerto pensati per la fruizione dal vivo non possono essere semplicemente trasferiti sul virtuale e ottenere la stessa incisività, così come non avrebbe proprio senso trasferire interventi pensati per il web a una realtà fisica senza adattazioni concrete e senza compromessi. Un esempio che ho trovato estremamente virtuoso e molto interessante, sia per tempistiche che per modalità, è stato il MAMbo di Bologna per come ha gestito l’offerta culturale.

M: Ciclicamente la nostra società è investita da momenti di crisi che ci costringono a ridefinire le coordinate del nostro agire. Che cosa il mondo dell’arte contemporanea può imparare da quella che stiamo vivendo, sia in un’ottica di sostenibilità che di relazione con il pubblico?

AMG: La storia, la natura e, di conseguenza, le nostre vite vivono di cicli che si susseguono o che ritornano. Mi piace pensare che ogni grande crisi non sia altro che un avviso di cambio di ciclo che spesso non riusciamo a cogliere, mentre siamo attraversati da microfratture che provocano trasformazioni continue del nostro modo di vivere. Tuttavia, spesso assistiamo a un paradosso tra la fase acuta e i successivi momenti di allentamento di queste crisi. Mentre nella prima ci auspichiamo o rimaniamo intimoriti dagli eventuali grandi cambiamenti che arriveranno, nella seconda vediamo come nulla è stato completamente stravolto. Così come non esistono le grandi ideologie, le grandi narrazioni o le grandi rivoluzioni, non esistono più i grandi cambiamenti per cui dobbiamo studiare i segni effimeri, quelle microfratture di cui parlavo prima per capire come possiamo inglobarle o come possiamo adattarci ad esse.

Angel Moya Garcia (Cordova, Spagna, 1980. Vive e lavora a Firenze) è critico e curatore d’arte contemporanea. Laureato in Storia dell’Arte presso l’Università di Cordova è attualmente Responsabile della programmazione culturale e del coordinamento degli eventi del Mattatoio di Roma,Co-Direttore per le Arti Visive della Tenuta Dello Scompiglio a Lucca e socio di ICOM Italia – International Council of Museums, dell’IKT -International Association of Curators of Contemporary Art e dell’IAC – Istituto di Arte Contemporanea in Spagna. La dimensione fondamentale della sua ricerca si centrasul concetto di identità, sulla collettivizzazione dell’individuo e sulla decostruzione del soggetto nella filosofia contemporanea. Allo stesso tempo affronta interrogativi sulla trasversalità, attraverso l’analisi dei confini e l’identificazione e l’approfondimento di convergenze e linee intersecanti nelle diverse pratiche della contemporaneità, con una speciale attenzione verso i linguaggi installativi e performativi.

©METRONOM e Angel Moya Garcia, 2020
2/07/2020