cyphoria

Domenico Quaranta

FC: Domenico, si è appena conclusa la 16ª Quadriennale d’Arte, per la quale hai curato la sezione Cyphoria; puoi parlarci del progetto, qual è l’idea alla base, come l’hai sviluppata?

DQ: Gli ultimi venticinque anni hanno visto il progressivo estendersi all’intero mondo globalizzato delle conseguenze politiche, economiche, sociali e culturali di una evoluzione tecnologica partita all’indomani della seconda guerra mondiale. Uso il termine “evoluzione”, al posto del più comune “rivoluzione”, non a caso: se una rivoluzione si colloca in un momento preciso del tempo, l’evoluzione non conosce tregua, e la successione dei cambiamenti, con la sua velocità, ha avuto un ruolo preciso nel plasmare la condizione contemporanea. Non c’è aspetto della vita che non sia stato trasformato dall’incontro, e dallo scontro, con i flussi di dati digitali che escono dal computer, medium universale, e viaggiano sulle reti, e dall’esperienza della mediazione. Cyphoria ha voluto  indagare il modo in cui la condizione contemporanea si riflette nel lavoro di alcuni artisti italiani che hanno iniziato a lavorare, in momenti diversi, nel corso di questa evoluzione. La mostra ha raccolto artisti che esplorano questa condizione sia nella sua dimensione pubblica – affrontando questioni come la censura, la crisi della proprietà intellettuale, la sorveglianza, le nuove economie sommerse della rete, l’ubiquità della produzione di artefatti culturali – sia nella sua dimensione privata, indagando le conseguenze intime e personali introdotte dall’iperconnessione, dall’accelerazionismo, dal diluvio di informazioni, dal nuovo equilibrio tra dimensione pubblica e dimensione privata a cui vivere in rete ci ha abituato.

Nell’allestimento, dovendo fare i conti con una sala di passaggio, che non consentiva barriere architettoniche, e con un progetto che coinvolgeva 14 artisti, ho volutamente abbandonato le aree “di rispetto” che caratterizzano un classico allestimento da white cube per emulare quella fruizione cumulativa, disordinata, frammentaria, caotica con cui facciamo esperienza quando siamo immersi nel flusso dell’informazione. Sono molto soddisfatto del risultato.

A esperienza conclusa, cos’ha significato per te lavorare a Cyphoria e, più in generale, alla Quadriennale? Se tornassi indietro, cosa cambieresti e cosa, invece, vorresti che rimanesse invariato?

La Quadriennale è un progetto di alto livello istituzionale, per la sua storia e per il coinvolgimento diretto del Ministero, caso abbastanza raro per un evento di arte contemporanea in Italia. Farne parte vuol dire essere sottoposti a un livello di attenzione, mediatica e di pubblico, inusuale per chi opera in questo settore. Vuol dire anche operare al crocevia di tantissime aspettative, il 90% delle quali verranno inevitabilmente deluse. La consapevolezza di tutto questo mi ha portato a tentare di sviluppare, con Cyphoria, un discorso finora mai presentato, a quel livello, in Italia, e di farlo nella maniera più divulgativa possibile. Alcuni, fingendosi aggiornati sulle tendenze internazionali, l’hanno frettolosamente licenziata come l’ennesima mostra post internet. Vorrei chiedere loro: ma quante mostre post internet avete visto in Italia? E quante, di soli artisti italiani? Perché è dell’Italia, degli artisti italiani, e del suo posizionamento nella cultura globale contemporanea che siamo stati chiamati a parlare qui.

Cosa cambierei? Poco o nulla, in realtà, di ciò che è in mio potere cambiare. Sono contento di ciò che ho fatto all’interno del framework proposto dalla Quadriennale. Dal canto suo, questa cornice aveva diverse problematicità che non hanno sempre favorito una ricezione positiva dell’evento nel suo complesso. Sin dall’inizio, è stata posta troppa enfasi sui progetti curatoriali e sulla figura dei curatori, a scapito degli artisti e dei lavori su cui, invece, avrebbe dovuto catalizzarsi l’attenzione. Il numero complessivo degli artisti era troppo alto. Il tema generale della rassegna è stato percepito come pretestuoso. Personalmente, credo che quella di selezionare i curatori con un’open call, attingendo a un bacino di figure indipendenti e non ancora istituzionalizzate, sia stata un’ottima scelta che spero venga mantenuta in futuro. Ma se potessi dare un suggerimento per il futuro alla Quadriennale, sarebbe questo: selezionate i curatori sulla base del loro profilo e di uno statement, non di un progetto già articolato e definito. Poi chiudeteli in una stanza e fateli uscire solo quando saranno stati in grado di dare vita a un progetto unitario. Condiviso, pur avendo diverse anime. E che si esprima in una mostra, non dieci, con una quarantina di lavori, non cento, che siano espressione di una visione individuale ma anche capaci di conquistare gli altri curatori, pur nella loro diversità.

Nella creazione di un progetto curatoriale ed espositivo, in che modo conduci, solitamente, la tua ricerca? Segui una metodologia specifica o, a seconda del progetto, modifichi il tuo approccio alla ricerca? Come avviene, inoltre, la selezione degli artisti e dei lavori da includere?

No, non seguo una metodologia specifica. Alcune mostre sono un saggio, altre un romanzo, altre una poesia, altre un aforisma. Alcune sono un affresco storico, altre una natura morta o una scena intimista. Alcune nascono da un compito assegnato. Nel 2009, il LABoral Centro de Arte di Gijon mi ha chiesto di fare una mostra che chiudesse il loro ciclo di eventi dedicati al rapporto tra arte e videogame. Ne è uscita Playlist. Playing Games, Music, Art, una mostra sul recupero di tecnologie obsolete, il circuit bending e la musica 8 bit. Il “compito” assegnatomi dalla Quadriennale era: dicci qualcosa sull’arte italiana degli ultimi quindici anni che ci puoi dire solo tu. Altre mostre nascono dalla voglia di dire qualcosa, o di scommettere su una linea di ricerca. Con Holy Fire. Art of the Digital Age (iMAL, Bruxelles 2008) volevo combattere il luogo comune sulla marginalità culturale e la resistenza al mercato della Media Art, e mettere in discussione il senso stesso di questa definizione. Collect the WWWorld (2011 – 2012) scommetteva sul ritorno dell’opera archivio nell’era dei big data e dell’information overload: e ha scommesso bene, qualche anno dopo un’intera biennale è stata dedicata a questo tema. Altre mostre si aggregano spontaneamente attorno all’interesse per un lavoro specifico, o un nucleo di lavori che sembrano invitarmi a cercare per loro delle affinità elettive.

Qual è, secondo te, l’aspetto più importante che un curatore indipendente deve tenere in considerazione per sviluppare la propria idea di mostra? Che tipo di consiglio daresti ai giovani appassionati e studiosi d’arte che vogliono intraprendere questa carriera?

Potrà suonare banale, ma credo che ciò da cui un curatore non dovrebbe mai distogliere l’attenzione è il lavoro degli artisti. Ognuno di noi dovrebbe individuare, nel corso del suo percorso, delle figure di riferimento a cui guardare nel tempo con attenzione, da seguire e affiancare nei loro tragitti. Una lista ampliabile, capace di estendersi nel tempo a nuove schiere di giovani, ma senza limitarsi ad essi. Follow the artists: non credo che ci sia regola migliore per un curatore. Concepisco la curatela come un lavoro di analisi, ricerca, costruzione di connessioni e di un tessuto discorsivo attorno ai lavori. Ammiro quei curatori che hanno la personalità, il carisma, la capacità di intuizione necessaria per “provocare” l’arte, per spingere gli artisti su sentieri che non avevano intravisto, ma non sono uno di loro. Anche quando ho dato vita a progetti curatoriali che proponevano agli artisti le proprie regole del gioco, era a idee già esplorate dagli artisti che mi sono ispirato, rilanciandole come modalità operativa comune.

Domenico Quaranta

Domenico Quaranta è critico d’arte contemporanea, curatore e docente. Il suo lavoro si concentra sull’impatto dei mezzi attuali di produzione e distribuzione sulla pratica artistica. É autore di Media, New Media, Postmedia (Postmedia Books, 2010) e direttore artistico del Link Center for the Arts of the Information Age. Maggiori informazioni: http://domenicoquaranta.com.

 

Cover image: Cyphoria. Quadriennale 16, Roma, Palazzo delle Esposizioni. Foto Okno Studio.

L’intervista è stata realizzata da Federica Cavazzuti, gennaio 2017.