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DON’T MAKE THEM TELL YOU WHERE THEY COME FROM: conversazione con Daniele Marzorati

Metronom: Il titolo della mostra Don’t Make Them Tell You Where They Come From riflette sul processo creativo, e sulla relazione fra opera e realtà da cui questa è generata. Come pensi che i tuoi lavori si inseriscano all’interno di questa riflessione?

Daniele Marzorati: Chiedere da dove si proviene significa chiedere il documento d’identità della persona o dell’oggetto, significa essere nudi ed essere se stessi senza finzioni o messe in scena. Probabilmente è impossibile pensare a una cosa senza far riferimento alla rappresentazione che nella nostra testa sostituisce l’oggetto stesso, ma cercare di guardare quell’oggetto eliminando il più possibile la sua rappresentazione credo sia il tentativo più sincero di conoscenza. I miei lavori usano spesso dei linguaggi molto classici, la fotografia a pellicola con la stampa a contatto, il disegno e la pittura a olio; io vorrei solo farli interagire, insomma, non credo alla monocoltura. La loro intersezione rischia a volte di rendere dubbio il punto in cui si è generato il lavoro, ma questo non è un problema che mi pongo. Piuttosto mi piacciono le operazioni di traduzione e spostamento. Attraverso sottili passaggi, esse modificano completamente il senso dell’oggetto di partenza senza quasi cambiarlo d’aspetto. Questa differenza credo sia rivoluzionaria e permette di fare moltissimo dal poco. Usare tale logica senza fini di profitto sarebbe un primo punto per ristabilire una parità fra l’oggetto finito e il luogo in cui si è generato. Chiedere quale sia la relazione fra l’opera e il contesto che l’ha generata significa interrogare la storia, quindi l’origine, scoprire la struttura e quello che vi sta sotto. Ciò viene fatto a partire dalla superficie: da come essa appare è possibile osservare i dettagli che la costituiscono e andare sotto. Allora l’idea di usare la fotografia come calco, la stampa a contatto o, in altri lavori, il frottage, significa aderire alla superficie, cercare di riportare in modo identico il punto da cui si genera l’opera. Si può quindi arrivare alle radici dell’immagine per mezzo di una ricerca quasi filologica che ha inizio da ciò che la superficie mostra, dalle figure che si sostituiscono a dei significati al di là della loro forma oggettuale. Ciò significa aver creato un contenitore in grado di svelare altro oltre a se stesso, significa poter spostare il nostro pensiero a partire dalla superficie, dal visivo e, per mezzo dell’immagine, passare oltre la realtà che l’ha generata.

M: Nell’opera It Is What It Was – Yorick (2019) riproduci con pittura a olio una fotografia conservata all’archivio del Jardin de l’Agronomie Tropical di Parigi. Cosa ha dettato questa scelta e questo cambio di medium espressivo?

DM: La pittura è uno dei media più sfuggevoli e questa sua sfuggevolezza risulta evidente in questo specifico caso. Credo che la ripetizione porti inevitabilmente alla conoscenza. Il processo d’apprendimento, che poi può diventare scoperta, utilizza la ripetizione non come generatore di cloni perfetti, ma come produttore di conoscenza per differenza. In questo caso, il passaggio tra la fotografia e la pittura permette di ripetere le forme, la pittura sembra fare il verso alla fotografia, accostandosi a lei visivamente e utilizzando alcuni dei suoi mezzi; l’olio è dipinto su carta invece che essere su tela e la cornice ha il vetro, non c’è il telaio della pittura. Il tentativo è di usare i due linguaggi come sponde che collaborano, l’uno genera l’altro e man mano ci si sposta. Spesso nel mio lavoro la pittura deriva da una fotografia, mi piacerebbe farle lavorare in entrambi i sensi. Anche la pittura può essere il punto di partenza per una nuova fotografia, non solo sotto il profilo visivo, ossia un modello d’inquadratura, ma potrebbe essere lei il playmaker che dirigere le fotografie al seguito. Anzi, per diventare ancora di più, il lavoro dovrebbe fare a meno di questo binomio, le parti dovrebbero essere una sorta di Pulp Fiction in cui tutto scorre simultaneo ed esplode, unendo così i frammenti e riallineando i punti, senza dare una totale certezza di cosa genera e di chi è generato.

M: In Tronco tripla – Sezioni (2016) accosti tre scatti di porzioni di un bosco in Sardegna su un unico negativo stampato a contatto. Che tipo di narrazione della natura sarda vuoi suggerire all’osservatore?

DM: Non vorrei suggerire alcuna narrazione, ci sono tre scene che ripetono lo stesso oggetto visto da posizioni diverse, il resto sta a voi. La fotografia è diventata un meccanismo di riproduzione a cui vengono applicate delle sovrastrutture concettuali per giustificare l’impotenza visiva dell’immagine prodotta. La fotografia non ne ha bisogno, è già più concettuale di se stessa: una copia imperfetta, per differenza, degli oggetti fisici. Scegliere una parte di mondo, tagliarla e censurare ciò che le è adiacente per ristabilire una serie di relazioni tra gli oggetti che essa contiene è già un’operazione potente e complessa, anche sotto il profilo concettuale. In Tronco tripla ho potenziato e reiterato questo passaggio. Usando la fotografia superclassica, ossia un negativo di grande formato di 20 x 25 cm in bianco e nero, ho dirottato il meccanismo di inquadratura accostando durante le riprese, direttamente sul negativo, tre esposizioni differenti con la stessa scena. Ipoteticamente potrei collegare spazi lontanissimi e avvicinarli sullo stesso piano nel territorio del negativo, come accade in altre scene appartenenti a questa serie . Quindi, direi che sono l’immagine e singoli frammenti d’essa che costruiscono la narrazione. L’obiettivo consiste nel fare in modo che ogni volta che qualcuno osserva l’immagine egli si possa costruire una narrazione a-lineare e l’immagine lo faccia con lui, ma non sono io a imporla.

M: In Tutti i diritti sono riservati (2019) qual è il rapporto che lega la scultura in marmo, la fotografia e la stampa? Puoi spiegarci come il titolo dell’opera dialoga con esso?

DM: Lavorare a Carrara è come stare all’interno di un’immensa scultura, il paesaggio viene modificato sempre, anche se non ce ne accorgiamo. Lo si respira nell’aria e le montagne e il bianco sono così vicini, presenti tanto da spalmarsi su ogni cosa. Il rapporto tra scultura, fotografia e stampa è legato ancora una volta all’idea di calco. Volevo lavorare sul paesaggio e con il marmo, ma senza estrarre nuovamente una parte di montagna. Lavorare con il calco che la fotografia produce osservando il marmo del monumento ad Alberto Meschi e utilizzare un formato panoramico, 6 x 12 cm, che si sviluppa orizzontalmente, significa lavorare su entrambe le cose. Inoltre anni fa avevo collaborato con A-rivista e pubblicato alcuni miei lavori (tra i quali Sezioni, di cui fa parte Tronco tripla), quindi ho deciso di collaborare con la Cooperativa Tipografica Anarchica e unire il luogo in cui è stato generato il lavoro ai suoi contenuti teorici.  Mi spiego meglio: lavorare con la tipografia anarchica significa accettarla come scultura sociale, ossia condividerne l’organizzazione, in senso ampio la storia e la divulgazione di contenuti che essa promuove. Significa anche non utilizzare sistemi industriali e far entrare questi contenuti nel lavoro, non soltanto teoricamente, ma attraverso una serie di scelte che siano visibili. Per ciò i cliché che abbiamo prodotto sono ottenuti usando il loro bromografo: i negativi sono adagiati sulle lastre, esse vengono esposte alla luce e sviluppate. Attualmente le lastre tipografiche vengono stampate digitalmente: il bromografo mi ha invece permesso di usare lo stesso procedimento della fotografia con la stampa a contatto. I cliché tipografici sono inoltre stampabili solo se spediti in Francia in quanto la tipografia di Carrara ha regalato la macchina con cui stampava tali lastre a un altro gruppo anarchico francese. Quelle che ho utilizzato erano una rimanenza utilizzabile solo con quella macchina. In questo senso ho unito i presupposti teorici del luogo allo spazio fisico in cui sono state generate le lastre. Questi ultimi particolari mi interessano per aprire nuovamente il lavoro. Per ora le lastre sono una scultura sottilissima e trattengono un potenziale, ossia la possibilità di produrre una scultura aperta e infinita attraverso la stampa di manifesti che possono essere applicati su qualsiasi superficie, edificio o altra statua. Ciò mi sembra il raggiungimento dello scopo iniziale, ossia produrre una nuova scultura senza usare marmo, lavorare sul paesaggio come oggetto condiviso, sulla città-scultura di Carrara e restituire il potenziale inespresso del marmo. Il titolo spalleggia tutte queste idee.

 

© Daniele Marzorati / Courtesy METRONOM

17/12/2020