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Lewis Bush

Metronom: Dopo aver studiato all’università di Warwick, hai lavorato come consulente ricercatore per le Nazioni Unite. Cosa hai studiato e come sei arrivato a lavorare con la fotografia?

Lewis Bush: A Warwick ho studiato storia, in gran parte perché non sapevo davvero cosa volessi fare della mia vita (chi lo sa a diciotto anni?) e la storia mi era sempre interessata. Fare questo mi ha concesso tre anni per esplorare molte idee diverse e nonostante ne sia emerso pensando che sia stato un po’ un diversivo, sto iniziando a capire col senno di poi quanto profondamente siano penetrate alcune di quelle idee. In particolare, idee sul potere, su chi può stabilire il primato, e in cosa consiste quel primato.
Parlando di fotografia, avevo fotografato un bel po’ durante la mia adolescenza e sono diventato un po’ più serio a Warwick, scattando fotografie per l’associazione degli studenti, il giornale studentesco e qualche altra cosa. Il tempo trascorso a lavorare presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra è stato molto interessante, ma mi ha anche fatto capire che non ero disposto a passare il tempo dietro una scrivania. Una carriera nella fotografia sembrava un buon modo per evitarlo.

M: Scrivi, ti occupi di curatela e fai ricerca accademica, oltre a proseguire la tua pratica multimediale con libri e stampe conservati in numerose prestigiose collezioni: perché scegli di insegnare? Questo influenza in qualche modo le tue altre pratiche?

LB: Se posso essere totalmente onesto, sono approdato all’insegnamento, come a tante altre cose nella mia vita, per caso. Un giorno mi sono imbattuto in uno dei miei ex tutor e mi ha invitato a tenere una lezione. È andata bene e da lì è partito tutto. All’inizio insegnavo perché era un lavoro e ho pensato che fosse meglio fare qualcosa che riguardasse la fotografia indirettamente rispetto a qualcosa di completamente estraneo, ma nel tempo ho capito quanto l’insegnamento modelli le mie idee, sia direttamente che indirettamente. Direttamente nel senso che costringe anche te a imparare costantemente ad essere sempre aperto a nuove idee e tecniche. Indirettamente, nel senso che tutte quelle ore a parlare delle idee con gli studenti ti fanno riflettere costantemente sulle cose. A volte uno studente ti fa una domanda che ti costringe a ripensare qualcosa che in precedenza pensavi fosse ormai indiscutibile e oltre ogni dubbio: adoro quell’esperienza.

M: Sei stato e sei ancora il direttore del Master in fotogiornalismo e fotografia documentaria presso il London College of Communication, corso interamente online prima che tutti i corsi a livello globale fossero costretti a seguire l’esempio a causa dell’epidemia di covid-19. Certo, la fotografia in molti modi si presta alle piattaforme digitali meglio di molti altri mezzi, ma perché hai scelto di condurre il corso interamente online?

LB: Devo dire che il merito per aver fondato il corso va a Paul Lowe, che nel 2008 ha intuito che c’era spazio per questo tipo di insegnamento online, anche a causa dei cambiamenti tecnologici, come hai notato. Il corso era molto innovativo allora e penso che lo sia ancora oggi sebbene gradualmente siano nati altri master interamente online. La mia visione dell’insegnamento online è che offra una serie di sfide e opportunità diverse rispetto all’insegnamento faccia a faccia, non è né inferiore (come alcuni che non l’hanno mai sperimentato sembrano credere) né essenzialmente superiore (come alcuni tecnologi dell’educazione vorrebbero farci pensare). La sua utilità dipende molto da quello che vuoi fare.
Per quanto mi riguarda, la fotografia, e in particolare la fotografia documentaria, è un mezzo con un’inclinazione eurocentrica molto problematica, dominato per gran parte della sua storia da uomini bianchi della classe media. Una delle cose che mi piace dell’insegnamento online sono le possibilità di affrontare questo problema. Abbiamo una coorte di studenti davvero globale, ognuno dei quali porta le proprie idee e riferimenti a partire dal proprio contesto particolare. E mi impegno molto in termini di ospiti che invitiamo, per fare eco anche alla natura globale del corso. È ancora un lavoro in divenire, ma è una delle cose che mi entusiasma di questo modo di insegnare.

M: Sebbene sia molto eccitante, ci devono essere anche casi in cui è difficile comprendere i linguaggi visivi e i contesti da cui sono stati creati in luoghi finora trascurati dalla comunità fotografica occidentale. Succede spesso e in che modo riesci a superare queste sfide quando cerchi di aiutare gli studenti a sviluppare i loro progetti in modo fedele per loro e per quello che stanno facendo?

LB: Può esserlo, ma anche questo è anche uno dei piaceri legati a questo. Odio l’idea del modello di insegnamento del “saggio sul palco”, o forse nel nostro caso sarebbe il “saggio sulla pagina web”. Cerco di essere molto aperto con gli studenti sul fatto che imparo sempre così come stanno facendo loro, e li incoraggio a portare i loro esempi e condividerli e, se necessario, spiegarli al resto del gruppo. Penso che funzioni particolarmente bene al livello del Master, in cui c’è un senso maggiore di far parte di una comunità di pratica, ovvero un gruppo di professionisti uniti da un interesse condiviso per qualcosa, tanto quanto siamo insegnanti e studenti. Dipende sempre dalla dinamica del gruppo di ogni anno, ma in generale ho scoperto che gli studenti sono davvero aperti a questo approccio.

M: In base alla tua esperienza di insegnamento online, che tipo di problemi tu e i tuoi studenti incontrate nello sviluppo di progetti basati sulla materia o multimediali?

LB: Per esempio, i libri sono una parte importante della mia pratica e alcuni degli altri tutor sono molto orientati verso la mostra o focalizzati su altre forme di fotografia che riguardano molto la relazione tattile tra spettatore e materia. Questo può ovviamente essere complicato, non posso portare esempi in carta in una classe per condividerli con i miei studenti, ma posso dire loro dove trovare il proprio, e in qualche modo questo forse è più utile e più sostenibile a lungo termine. Inoltre, in una certa misura parlare di queste cose virtualmente in realtà risuona nel mondo reale più che sedersi con materiali fisici. La maggior parte dei libri che ho fatto con gli editori, gran parte dei botta e risposta su design e materiali sono stati condotti in modo digitale, allo stesso modo dei progetti espositivi.

M: Riportando la conversazione all’insegnamento in generale, quanto sono importanti la teoria e la scrittura critica per la struttura del tuo corso e il modo in cui cerchi di convincere gli studenti a impegnarsi con il proprio lavoro e con gli altri?

LB: C’è un’unità didattica fondamentale di storia e teoria che mi piace molto insegnare. I nostri studenti provengono da tutti i tipi di background educativi, che vanno da un’istruzione formale relativamente carente ma con una grande esperienza pratica, fino ad altri che hanno conseguito dottorati e altre qualifiche superiori. Per alcuni di loro, le idee sullo sguardo di genere o orientalista, e così via, sono familiari e non così impegnative, per altri sono completamente nuove e questa parte del corso apre modi molto diversi di pensare alla fotografia e al suo potere. Gli studenti provengono anche da una varietà di discipline, alcune potrebbero aver precedentemente studiato aree correlate come l’antropologia, altre potrebbero avere un background nelle scienze, quindi le nostre sessioni di teoria a volte diventano questi incredibili calderoni di idee diverse.
Ognuno di loro scrive un saggio come parte di questa unità e in modo simile questi saggi finiscono spesso per essere un riflesso di problemi che gli studenti stanno affrontando nel loro lavoro pratico. Per me questo è il valore della teoria, quando indica soluzioni a problemi e domande pratiche. Idealmente penso che non dovrebbe esserci nemmeno una chiara distinzione tra dove finisce la teoria e la pratica (una delle cose più belle che uno studente mi abbia mai detto era che non era sicuro se le mie lezioni fossero più teoria o pratica!) Sebbene ami scoprire nuove idee, in un contesto didattico la teoria fine a se stessa finisce spesso per diventare un’esperienza astratta poco interessante.

Lewis Bush lavora con media e piattaforme differenti per visualizzare le attività di agenti, organizzazione e pratiche di potere. Dal 2012 la sua pratica ha dialogato su tematiche che vanno dal ri-sviluppo aggresivo di Londra alle disuguaglianze sistemiche del mondo dell’arte. Alcuni lavori recenti includono Shadow of State, che esamina il deficit democratico nella raccolta di informazioni, Wv.B che riflette sulla storia oscura delle missioni spaziali. Bush ha pubblicato vari testi sulla fotografia, e dal 2011 gestisce il Disphotic Blog. Ha curato diverse mostre ed è course leader del Master in documentary photography al London College of Communication.

 
Photo credits: Marin Avram
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8/06/2020