LAURA LEUZZI
Generazione Critica: Il tuo percorso come ricercatrice ha avuto inizio all’Università La Sapienza di Roma, con un dottorato in Strumenti e Metodi per la Storia dell’arte. La tua tesi, intitolata “L’elenco, la classificazione e il catalogo come pratiche artistiche nel Novecento”, ha segnato il punto di partenza. In seguito, hai iniziato a lavorare all’Università di Dundee, in Scozia, al progetto “REWINDItalia – Artist’s Video in Italy in the 70s and 80s”, finanziato dall’Arts and Humanities Research Council, sotto la direzione del pioniere della videoarte britannica Stephen Partridge. Durante il tuo periodo all’Università di Dundee, ti sei occupata di vari progetti che coprono argomenti come il ruolo delle artiste nella videoarte tra gli anni ’70 e ’80, e le pratiche di attivismo in relazione all’arte digitale. Potresti raccontarci come la tua attività di ricerca si è sviluppata nel corso degli anni e quali cambiamenti ha subito lavorando sia a La Sapienza che all’Università di Dundee e poi a RGU?
Laura Leuzzi: Ho iniziato a lavorare all’università di Dundee nel 2011. Avevo appena finito il dottorato e emerge l’opportunità di lavorare a REWINDitalia, un progetto di ricerca che mira a porre nuovamente sotto i riflettori internazionali l’eccezionale contributo degli artisti, dei teorici, dei curatori, e dei centri di produzione italiani allo sviluppo del video come pratica artistica. REWINDitalia mi ha dato la splendida occasione di lavorare in un team con l’archivista Adam Lockhart, approfondendo temi di conservazione e reinstallazione, intervistare numerosi protagonisti dell’epoca e studiare in profondità le sperimentazioni video e più in generale diverse pratiche artistiche degli anni ‘70 e ‘80. In quel contesto ho avuto la possibilità di muovere i primi passi a livello internazionale come curatrice e ricercatrice. Ad esempio, portare una selezione di video italiani a VideoEx (Walcheturm, Zurigo) nel 2014, oppure partecipando alle edizioni delle conferenze Media Art Histories dal 2013 a Riga.
A seguire con Steve e la video artista britannica Elaine Shemit, abbiamo sviluppato un progetto sulla videoarte delle donne in Europa negli anni ‘70 e ‘80, EWVA, intuendo quanto il contributo delle artiste alla videoarte fosse ancora troppo spesso marginalizzato e che vi fossero degli elementi comuni alle pratiche videoartistiche di artiste coeve dovute alla emergenza di temi legati al femminismo della seconda ondata. Questo elemento mi ha portato a concentrarmi su temi del ritratto, autoritratto e rappresentazione in rapporto al corpo e il medium.
Da REWINDitalia e EWVA sono nati due testi a mia co-curatela, a cui è seguito Richard Demarco: The Italian Connection che racconta dei rapporti del gallerista italo scozzese con l’Italia.
Parallelamente ho iniziato con l’artista americano Joseph DeLappe il Digital Art and Activism network, finanziato dalla Royal Society of Edinburgh, sull’arte digitale e l’attivismo, ricerca che ho portato avanti successivamente alla Sapienza, insieme a una ricerca sul reenactment. Il network è tuttora attivo e speriamo di poterlo sviluppare con altri progetti in futuro.
Da agosto sono Chancellor’s Fellow alla Gray’s School of Art, parte di Robert Gordon University a Aberdeen, dove sto sviluppando un programma su arte digitale e attivismo, con diversi progetti che si focalizzano su specifici temi e con diversi approcci.
GC: Oltre alla tua attività di ricercatrice, ti occupi anche di curatela. Durante il workshop “Prospectives 2023”, che esamina le relazioni tra le arti e l’attivismo da una prospettiva multidisciplinare e organizzato nell’ambito della International Summer School della Scottish Graduate School for Art and Humanities, hai discusso di come la ricerca e la curatela si intrecciano nel tuo lavoro. Hai descritto l’uso del reenactment, ovvero la rievocazione, come strumento di indagine su performance e opere di videoarte degli anni ’70 e ’80, da un punto di vista teorico, storico-artistico e curatoriale. Il tuo intervento si è concentrato su casi di studio dai progetti di ricerca “REWIND”, “REWINDItalia” e “EWVA” (European Women’s Video Art in the 70s and 80s). Come hai iniziato ad utilizzare il reenactment come strumento di ricerca practice-based e in che modo ha influenzato il tuo lavoro di curatrice?
LL: Il mio primo approccio al reenactment avviene in realtà molti anni fa. Un mio amico e collega, Emanuele Sbardella, curava una performance di Cesare Pietroiusti al MLAC, Sapienza, a cui avevo partecipato come pubblico, e al termine della performance Cesare aveva chiesto di ripetere l’azione l’anno successivo. Da lì io e Sbardella abbiamo curato due cicli di reenactment da cui nasce un volume – a cui contribuiscono Cesare stesso e Domenico Quaranta – in cui c’è un focus su performance, nuovi media e digitale e la diversità di forme che il reenactment può assumere.
Alcuni anni dopo, invitata al Festival VideoEx al Walcheturm di Zurigo con Partridge, nell’ambito di uno screening dedicato a REWINDItalia, invitiamo il musicista italiano Claudio Ambrosini a ripetere live una sua video performance intitolata Videosonata, prodotta dal Cavallino a Venezia nel 1979. Ed è lì che mi rendo conto delle potenzialità del reenactment come strumento: poter studiare da vicino come l’artista ha realizzato l’opera. Nello specifico con una mano Claudio replica sulla tastiera la rasterizzazione dello schermo mentre con l’altro individua dei punti dell’immagine proiettata. Così quando vengo invitata dal Festival Visions in the Nunnery a Bowarts a Londra nel 2016 propongo a Elaine Shemilt di fare un reenactment della sua videoperformance Doppelganger. E rivisitando il lavoro mi racconta finalmente la funzione del monitor di feedback per realizzare l’autoritratto esibito sullo specchio che si vede nel video. Quindi scopriamo più da vicino come il video sfrutta una delle grandi e innovative caratteristiche tecniche del video portatile: il feedback.
Inoltre, l’immagine di close-up proiettata sul muro stimola un coinvolgimento empatico del pubblico e consente di apprezzare più da vicino il lavoro della Shemilt.
Quindi il reenactment diventa un metodo practice-based della mia ricerca.
GC: Quali sono le principali differenze tra questa metodologia di lavoro e la pratica curatoriale tradizionale?
LL: La ricerca è sempre al centro della mia pratica curatoriale e la sperimentazione di nuovi formati e piattaforme è parte fondamentale del processo di ricerca e di disseminazione dei suoi risultati, con un coinvolgimento e scambio con un pubblico di esperti e un pubblico generalista. Questo scambio oltre a informare l’evoluzione di queste piattaforme, che cambiano, si evolvono e si adattano alle ambientazioni o al tema diverso, informa la ricerca stessa, nutrendo approcci e diversi punti di vista.
Per questo tendo a non ripetere mai gli stessi formati, che per loro natura sono sperimentali e legati a un momento specifico della ricerca.
Per questo trovo i festival di arte digitale particolarmente interessanti, perché consentono un certo grado di sperimentazione e testare novità.
In seconda battuta cerco poi di riflettere anche dal punto di vista teorico sugli elementi e gli approcci adottati e quindi le conferenze e i successivi atti di convegno diventano luoghi privilegiati per la riflessione e il confronto con i colleghi.
Prospectives 2023 co-organizzato con DeLappe nell’ambito della International Summer School della Scottish Graduate School for Art Humanities ci ha consentito proprio di esaminare in chiave multidisciplinare la ricerca practice-based sul tema dell’attivismo. Con DeLappe, che a sua volta ha parlato dei suoi numerosi progetti sul pacifismo su piattaforme digitali e in-game, abbiamo coinvolto teorici come Martin Zeilinger (University of Abertay, Dundee) che sta lavorando su AI e blockchain; Maja Zeco (RGU) che con i suoi progetti di sound art esplora la densità del tempo e diversi spazi (di grande intensità le sue opere che raccontano dell’assedio di Sarajevo tra il 92 e il 94) e il modo in cui vengono interagiti coinvolgendo vari pubblici (Silencer); Emile Shemilt (Napier University) che ci ha discusso la sua ricerca fotografica negli archivi della South Georgia che testimoniano del dramma ambientale che stiamo vivendo con il climate change e della whaling industry; il compositore Dimitri Scarlato (Royal College of Music, Londra) che in opere e sinfonie ha esplorato temi di grande attualità come la violenza di genere (ad esempio, la sua opera Fadwa tratta del femminicidio, e se pur ispirata a fatti cronaca di oltre 10 anni fa, è ancora drammaticamente attuale con la recente tragedia del femminicidio di Giulia Cecchettin), la salute mentale (A Life Reset) e Brexit (In Limbo), la prof. Antonella Sbrilli (La Sapienza Università di Roma) che ha raccontato dell’esperienza con gli artisti con disabilità della comunità di Sant’Egidio e della mostra Dis/integration; Jon Blackwood ha raccontato delle sue esperienze attiviste da curatore e storico dell’arte nei Balcani.
GC: Durante il tuo intervento, hai descritto il ruolo dell’artista come un ‘agente del cambiamento’ il cui lavoro ha la capacità di incidere sulla cultura e la società contemporanea. Potresti approfondire questa idea e spiegare in che modo il tuo lavoro si relaziona a questa visione dell’artista? Secondo te, in che modo è possibile valutare l’impatto di attività artistiche che utilizzano pratiche di attivismo, basandosi anche sulla tua esperienza di ricerca al progetto “React Digital art and Activism” e al lavoro svolto con l’artista e studioso Joseph DeLappe?
LL: L’artista in questo momento storico estremamente complesso può essere fondamentale nello stimolare una riflessione su grandi temi contemporanei che vanno dalle grandi sfide su ambiente, diritti, uguaglianza, pacifismo, immigrazione. La violenza di genere e le nuove tecnologie che pongono tante sfide di natura etica, morale, economica, ambientale, di accesso etc. come AI, blockchain, criptovalute e ancora elementi della nostra realtà quotidiana come i social media, i mondi virtuali e i video game.
In questo mondo articolato e complesso, i pionieri dei new media e gli artisti che lavorano oggi sulle nuove tecnologie sono all’avanguardia nel comprendere, ripensare e hackerare strumenti realizzati spesso con fini meramente commerciali che però possono essere veicolo di cambiamento, non solo in un utilizzo attivista ma anche per portare all’attenzione del pubblico generalista problemi e punti di vista differenti. L’intervento dell’artista quindi va da macro al micro con il coinvolgimento di piccole comunità.
GC: A settembre è stato inaugurato il programma di mostre online “RE_EXHIBIT”, da te curato insieme ad Adam Lockhart e parte del progetto “REWIND Artists’ Video”, inaugurato nel 2004 dal professor Stephen Partridge. Come nasce “RE_EXHIBIT” e di come si inserisce nell’ampio panorama di progetti portati avanti all’interno di “REWIND”?
LL: Recentemente io e Adam Lockhart abbiamo dato vita a questa nuova piattaforma curatoriale con la sfida di sperimentare nuovi formati curatoriali per promuovere la Collezione di Rewind e poi in generale della videoarte delle origini, con l’obiettivo di esplorare diversi approcci e discorsi contemporanei.
Il progetto è all’insegna dell’accessibilità perché consente di fruire delle opere direttamente da casa con l’obiettivo di raggiungere i pubblici più diversi.
Abbiamo aperto con una mostra sulle collaborazioni a due curata dall’accademica e artista Chris Meigh-Andrews, a cui è seguita la nostra prima video-commissione. Una performance dell’artista italiana Cinzia Cremona in risposta a Vanitas di Tamara Krikorian che esplora attraverso lo sguardo e l’interazione tra performer e camera il tema del narcisismo già sollevato in relazione al video di Rosalind Krauss.
Seguirà una mostra collettiva curata da Jon Blackwood, incentrata sul primo decennio della videoarte macedone, ancora poco conosciuta da artisti e storici dell’arte al di fuori della Macedonia settentrionale.
GC: A novembre uscirà “INCITE: Digital Art & Activism”, libro d’artista collaborativo che hai curato insieme a Joseph DeLappe e che riunisce i contributi di numerosi artisti, studiosi e attivisti il cui lavoro ruota attorno a pratiche di attivismo in relazione all’arte e gli spazi digitali. Il volume è stato realizzato da Peacock e presentato il 10 di Novembre alla galleria The Worm ad Aberdeen, in Scozia. Ci puoi raccontare la genesi di questa collaborazione tra voi curatori e con gli autori coinvolti nel progetto?
LL: Questo volume nasce dall’esperienza per il Network Digital Art and Activism. Dopo un workshop al V&A Design di Dundee, il direttore di Peacock Nuno Sacramento ci propose di realizzare un volume d’artista per lasciare una traccia delle discussioni e scambi sviluppatesi. Da lì è iniziata una collaborazione con Neil Corall e Enxhi Mandija di Peacock, che ci ha portato alla realizzazione di questo volume d’artista in risografia con 21 contributi originali di artisti, curatori, teorici, designer e attivisti che raccontano la loro esperienza e i temi con cui si confrontano.
Io ad esempio nelle mie pagine ho riflettuto sul rapporto di intimità e dialogo che intesso con le artiste e come lo utilizzo per fare emergere storie e pratiche di artiste donne che si confrontano con la lotta femminista esplorando temi del corpo, dell’identità e della rappresentazione.
Quello che emerge è la risonanza e la trasferibilità di alcuni approcci all’attivismo artistico che hanno l’ambizione di stimolare nuova ricerca e pratica.
Molti sono gli interventi particolarmente interessanti ma segnalo tra i molti quello di Giulia Casalini in collaborazione con l’artista ghanese Va Bene che porta alla nostra attenzione tramite un rituale, una performance la potenzialità rigeneratrice dell’arte nella corrente situazione drammatica dei diritti della comunità LGBTQAI+ in Ghana, Niya B che mette in luce la difficoltà di accesso per le cure ormonali necessarie alla comunità trans, oppure Martin Zielinger che con una “ricetta” problematizza aspetti della blockchain, o ancora l’intervento di Ellie Harrison che racconta del suo famoso progetto The Glasgow Effect, l’intervento della curatrice Iliyana Nedkova sul diario di guerra della artista ucraina Alla Georgieva, Joseph DeLappe che dedica un intervento al tema della memorializzazione delle vittime nel caso della famiglia Ahmadi, BD Owens con un intervento verbovisivo anticapitalista, Donna Holford Lovell sul tema di genere nel cyberspace, Elaine Shemilt sulla collaborazione tra artisti e scienziati nella ricerca, Emile Shemilt con una serie fotografica sul dramma della crisi dei rifugiati nel Mediterraneo, Eve Mosher sul tema dell’engagement di progetti artistici nelle comunità, Gair Dunlop che riflette su arte, new media e attivismo, Hadi Mehrpouya & Duncan Nicoll che provano a definire un Social Gaming Manifesto, John Butler che problematizza lo sfruttamento nel lavoro della società attuale, Jon Blackwood che con i suoi aforismi si iscrive nella tradizione del manifesto d’artista/attivista, Maja Zećo denuncia il sospetto islamofobico nei confronti della Bosnia-Erzegovina da parte di importanti politici europei di destra, Moza Almatrooshi che con una prospettiva storico-culturale racconta l’apicoltura nelle realtà postcoloniale degli Emirati Arabi Uniti, l’intervento su esperienza sensazione e attivismo di Tom de Majo, Malath Abbas con un intervento pacifista e Zoyander Street che chiude ilk volume con una riflessione sull’accesso alla sanità da parte della comunità LGBTQAI+.
GC: Ci vuoi parlare della nuova Fellowship a RGU?
LL: Sono uno dei nuovi dieci Chancellor’s Fellow che costituiscono un grosso investimento della Robert Gordon University per sviluppare progetti di ricerca interdisciplinare nell’ateneo.
Mi trovo alla Gray’s School of Art, in cui sto sviluppando progetti di ricerca e progetti curatoriali con i miei nuovi colleghi. Nella primavera del 2022 RGU ha lanciato una nuova strategia di ricerca identificando quattro temi di ricerca interdisciplinari su cui focalizzarsi: Environment, Energy and Sustainability; Living in a Digital World; Health and Wellbeing; Inclusive and Creative Societies. Se siete interessati a saperne di più, c’è un video in cui il Prof. Nick Fyfe, Vice-Principale RGU per la Ricerca e il Coinvolgimento della Comunità, Grant Davidson, Responsabile della Strategia di Ricerca, Cultura e Performance, e i ricercatori di tutta l’Università parlano della ricerca interdisciplinare, innovativa e collaborativa alla RGU: link al video.
Per questo per la mia fellowship ho proposto un progetto ombrello su arte digitale e attivismo – che centrato su Living in a Digital World, tocca tangenzialmente gli altri temi – che possa sviluppare in chiave interdisciplinare la ricerca in collaborazione con artisti, practitioners, curatori ed esperti di varie discipline sulle grandi sfide del nostro mondo contemporaneo attraverso le nuove tecnologie. Il progetto si propone di sviluppare un ampio engagement con diversi pubblici e avere un impatto sul mondo accademico e la società più in generale, contribuendo a sviluppare, comunicare e ampliare l’importanza del ruolo dell’artista e dell’arte nella nostra società. Sempre tenendo al centro una prospettiva femminista intersezionale che abbia come valori cardine inclusività e accessibilità. I grandi pionieri di new media hanno sempre portato una forte riflessione sui grandi temi sociali, politici, ecologici e storici in un complesso dialogo interdisciplinare: è importante recuperare in modo critico questa storia, indagare e sperimentare nel contemporaneo sia dal punto di vista teorico sia in un metodo basato sulla pratica, per guardare al futuro.
Gli altri colleghi sono Gael Morrow (School of Pharmacy and Life Sciences), Joanna Shim (School of Health Sciences), William Ball (School of Nursing, Midwifery and Paramedic Practice), Anne-Marie Foster (School of Creative and Cultural Business), Ruby Roberts (Aberdeen Business School), Ikechukwu Nkisi-Orji (School of Computing), Wei Zhang (National Subsea Centre) e Vinoth Ramalingam (School of Engineering). Davvero non vedo l’ora di scambiare idee e, se possibile, avviare progetti con loro.