LUCA MIRANDA
In occasione dello screening in corso di “Underw[h]e(a)re” dell’artista Luca Miranda, per FILTRO, terza edizione di DIGITAL VIDEO WALL a cura di Gemma Fantacci, Generazione Critica ha intervistato l’artista.
Generazione Critica: Il tuo lavoro può essere definito poliedrico ed una delle parole chiave che fa da fil rouge nella tua produzione artistica è sicuramente sperimentazione, a partire dal mezzo videoludico, la fotografia e il video, comprende la letteratura, fino ad includere anche le pratiche di reenactment e remix di altre opere d’arte. Puoi parlarci più a fondo del tuo lavoro e di come differenti medium si trovano a dialogare tra loro?
Luca Miranda: Il mio lavoro si basa principalmente su di un processo di osservazione e speculazione. Sono incuriosito dal prendere un determinato medium, osservarlo, e riflettere su quali possano essere dei suoi output alternativi. La stessa cosa la faccio con le opere, specialmente con i videogiochi, anche se non in maniera esclusivizzante. Ad esempio, uno dei miei lavori in-corso consiste nel recuperare opere di letteratura (romanzi, saggi, o altro) e attuare un processo di riscrittura che tenga conto solo delle domande formulate all’interno dell’opera. Ne risulta una rilettura composta solo da domande. E questo è interessante perché è come se si potesse vedere il telaio interrogativo che ha retto il pensiero razionale o il flusso di coscienza dell’autore durante la stesura. Un lavoro simile lo svolgo con altri media: utilizzare elementi di essi, e nello specifico di determinate opere, per ottenere risultati che vadano ad interrogare i modi, le forme, le ideologie con cui si presentano al pubblico, a noi. Penso che il dialogo sperimentale e la confluenza ibrida siano il linguaggio naturale della produzione artistica. Un medium non dà il suo meglio quando viene lasciato nel suo contesto, bensì quando un incontro eccezionale (o anche confuso) con un altro medium dà adito a nuove rivelazioni e sperimentazioni.
GC: L’intervento sul dato visivo, sia esso in forma di fotografia in-game oppure di video, come il machinima, è un punto nodale della tua produzione artistica. Un altro aspetto interessante che emerge dal tuo lavoro è una particolare estetica dell’osservazione che manda in tilt lo scopo originario del gioco, trasformandolo in materiale da costruzione, come direbbe Mary Flanagan. Quale è il tuo approccio all’ambiente di gioco e come avviene il processo di osservazione del e nel mondo virtuale? Da cosa scaturisce, dunque, la necessità di osservare?
LM: Penso sia necessario sottolineare i due punti di partenza da cui nascono le mie pratiche sperimentative. Da una prospettiva esperienziale, il videoludico si stende – ed estende – come il territorio da cui partono le mie esplorazioni informali. Come una strada da attraversare per un peripatetico, per intenderci. Invece, da una prospettiva critico-creativa, la mia base è senza alcun dubbio letteraria: non per quanto concerne una vera e propria conoscenza letteraria in sé, quanto all’uso della parola scritta come veicolo di riflessioni, domande e sperimentazioni. La mia pratica emerge, fondamentalmente, dall’incontro tra questi due aspetti. Mi piace come hai parlato di “un’estetica dell’osservazione” che manda in tilt uno scopo originario. Penso che questa definizione si possa applicare a tutto quello su cui decido di operare. L’elaborazione di questo processo avviene attraverso due percorsi attigui, ma di diversa natura (o meglio, cultura). Da un lato, l’esplorazione e la riflessione sregolata e de-canonizzata in un territorio ludico esplode sempre, in me, come una miccia accesa che ad un certo punto arriva a destinazione. Senza quasi rendermene conto, mi ritrovo a formulare potenziali riconversioni di una particolare azione che avviene durante la fruizione di un gioco, oppure il ripensamento di una determinata meccanica ludica: il decidere di smettere di compiere una gara tra bolidi nel deserto e mettersi a disegnare forme esoteriche sulla sabbia, ad esempio. Ovviamente, sono conscio del fatto che tali “esplosioni” derivino da una coscienza culturale, personale e storica, per quanto in uno specifico momento l’input possa risultarmi sepolto e non individuabile. Dall’altro lato, quello che agisce in me è una riflessione sui concetti di confine. Mi rifaccio a quanto scritto dallo studioso W.J.T. Mitchell in merito a questo termine. Fa notare come, ovviamente, l’idea di confine è facilmente associabile ad un’immagine e tutti, bene o male, sappiamo che un confine possiede due fronti, ognuno con date caratteristiche (interno/esterno, amico/nemico, eccetera). Tuttavia, sottolinea come sia presente un terzo aspetto: il confine stesso e l’atto di crearlo, di definirlo. Ecco, questo è un elemento, un atto e un’attitudine, che cerco di esplorare all’interno dei miei vagabondaggi nei videogiochi. Il confine è un oggetto materiale (anche se in termini virtuali), ma anche politico, ideologico, non immediatamente ravvisabile. Direi che la mia volontà osservatrice nasce dal voler esplorare quanto questo concetto di confine permei le varie strutture di un’esperienza videoludica, e come questa possa essere ripensata in termini critici e sperimentali. Questo tipo di azioni non sono solo criticamente veicolate, ma si pongono anche come una modalità per giocare senza costrizioni, senza seguire le regole. Ne travaillez jamais.
GC: “Underw[h]e(a)re”ha una doppia natura: nasce come progetto fotografico per espandersi successivamente in un video. Quale è la relazione tra medium filmico e medium fotografico all’interno dell’opera? In che modo l’utilizzo dell’uno e dell’altro ha guidato la ricerca visiva nella società francese di fine Settecento rappresentata nel videogioco Assassin’s Creed: Unity?LM: “Underw[h]e(a)re” è nato dall’esplorazione del mondo di gioco. Spesso, mi ritrovo nel cercare di mandare in tilt la camera spalmando l’avatar contro i muri, sdraiandolo a terra – e facendo altre azioni a seconda di quanto consentito dal gioco – oppure, cercando di portare la visuale di gioco in zone d’ombra irrilevanti ai fini dell’esperienza. Il lavoro di cui stiamo parlando è nato così. Ad un certo punto, mi sono chiesto cosa ci fosse “dentro” i simulacri che passeggiavano per le strade: le consistenze interne dei Png (Personaggio non giocante) sono un altro mio interesse. È stato il momento in cui ho scoperto la differenza di modellazione e di genere (programmatica e di design) tra le figure riconducibili a diverse classi sociali. Potrei dire che il progetto è nato come documentazione visiva di una fotografia puntuale: il mezzo non è precipuamente fotografico, ma gli scatti attestano la fotografia di una prassi progettuale e politica, catturata (oppure: grabbata) attraverso una testimonianza via screenshot. Il mezzo video è seguito subito dopo, anche se ideativamente era già presente durante la raccolta degli screenshots. Ho pensato fosse necessario non solo raccogliere informazioni visive bloccate nel tempo, ma anche acquisirne le modalità con cui si presentano in movimento e come ne vengono integrate in uno spazio sonoro o rumorifero. Rumori, sonorità ambientali, melodie dell’urbano sono altresì mezzi e dati informativi con cui recepire criticamente e creativamente una data produzione videoludica.
GC: Nella descrizione di “Underw[h]e(a)re” parli della relativa produzione fotografica sia in termini di scatto che di screenshot, ovvero un’immagine di ciò che viene visualizzato sullo schermo. Il concetto di immagine e di pratica fotografica è profondamente cambiato all’interno del panorama mediale contemporaneo, mi riferisco, ad esempio, a Joanna Zylinska che parla della fotografia come di una pratica sempre più distaccata dalla volontà e dalla visione umana. A tuo parere, come si rapporta ciò con la fotografia in-game?
LM: è una questione interessante quella che poni, perché apre anche problemi ontologici e filosofici nel rapporto che la nostra specie stabilisce con le immagini. Zylinska non ha torto – forse perché transitiamo più nel pittografico che nel fotografico – ma mi chiedo se non si debba anche considerare la trasformazione della visione umana e della tecnologia dello sguardo. Non possiamo permetterci, infatti, di considerare la visione umana solo in termini organici o biochimici: la nostra visione è un modello e un apparato tecnologico e, come tale, è suscettibile di modifiche, evoluzioni e rivoluzioni. La fotografia in-game viene da un’eredità prepotentemente fotografica e legata ad una certa tradizione dei formati visivi, se non altro per quanto concerne la nostra fruizione e pratica con essa. Ad esempio, durante l’esecuzione di fotografia in-game, l’autore dello “scatto” – generalmente almeno – si pone ad una distanza convenzionata rispetto allo schermo su cui il soggetto si rivela. Certo, lo schermo può variare di dimensioni, ma il rapporto di distanza è adattato in scala. Questo deriva da convenzioni come quella che avviarono i dipinti impressionisti, quando portarono chi visualizzava i dettagli pittoriali del tempo a distanziarsi di almeno un braccio rispetto alla tela, per poterne cogliere le corrette forme e il frame più adatto. Così, la fotografia in-game contiene in potenza la possibilità di esplorare nuovi formati visivi e stilistici, non necessariamente legati alla presenza di uno schermo: ci imbatteremo forse in uno screenshottare out-game?
GC: Nel suo articolo “Regarding the Torture of Others” (2004), Susan Sontag afferma: ‘Vivere significa essere fotografati, avere una testimonianza della propria vita’. Eppure, riprendendo ancora una volta il ragionamento di Zylinska, è necessario considerare il mezzo fotografico come parte di un contesto ancora più complesso in cui svolge il ruolo ‘di medium sottoposto a continui processi di mediazione, di cui solo alcuni coinvolgono gli esseri umani’. In un periodo storico in cui la vita si è radicata ancora di più all’interno degli spazi virtuali, la fruizione dell’informazione è gestita dagli algoritmi, e i magnati della Silicon Valley progettano nuovi universi abitativi (vedi Zuckerberg con il Metaverso), è il videogioco una testimonianza simulata della vita contemporanea? Oppure pensi che questo ruolo lo stia già ricoprendo da tempo e stentiamo a rendercene conto?LM: Il fotografico continua a rimanere un dominio prioritario nei territori dell’immagine. Muta con l’evoluzione tecnologica e storica: il fotografico si tramuta in una composizione di dati anziché di particelle. Ma, di fatto, la fotografia non si è da sempre presentata sotto forma di dati, in certo senso? Ora è corollata dalla presenza degli algoritmi, che fungono sia da spettro (dell’immagine idealizzata) sia da specchio (dell’idealizzazione dell’immagine). Mi piace pensare che il videogioco sia un prisma – piuttosto che una finestra – attraverso il quale individuare collegamenti con un nostro potenziale futuro, con un nostro sé in potenza. E questo “sé” non riguarda solo l’individuo, a livello psicologico o psichico: ma altresì le forme e le combinazioni con cui gli ambienti, i contesti e le tecnologie si configurano nelle nostre società. Un esempio tra tanti è la forma avatariale come paradigma. L’avatar videoludico si è sviluppato con una diversità di caratteristiche – variabili per tipo di gioco e per modalità funzionali – che si sono riversate e si stanno ampliando nei modelli di marketing e di configurazioni delle app e delle esperienze mobile con cui ci configuriamo ogni giorno. Per questo possiamo giustamente combattere idee – tecnoidealismi – come il Metaverso, ma, tuttosommato, non ci risultano poi così estranee. Penso che il videogioco ci abbia già mostrato possibilità che stanno diversi passi avanti a quanto promesso (o meglio, speculato) da parte di Zuckerberg. D’altronde, cos’ha di così rivoluzionario o stravolgente avere gli avatar dei nostri colleghi che gironzolano nella nostra stanza, quando è palese che al momento sia possibile solo attraverso un assenteismo fisico e locomotorio?
GC: Videogiochi e fotorealismo vanno di pari passo, tant’è vero che la maggior parte dei titoli tripla A usciti negli ultimi anni sono dotati di sofisticati sistemi di ripresa fotografica che li rendono estremamente simili alle moderne macchine fotografiche. Spesso la cosiddetta funzione photo modegarantisce anche possibilità di editing in tempo reale, trasformando il videogioco simultaneamente in un set fotografico e in un programma di editing. Ad ogni modo, nella produzione fotografica videoludica in ambito artistico si nota una netta volontà di liberarsi dalla copia fedele della realtà per far emergere le storture della cultura videoludica oppure una critica alla società contemporanea. Come descrivi questa sorta di sfida all’iperrealismo degli spazi di gioco messa in atto attraverso i sistemi fotografici implementati in questi stessi videogiochi?
LM: Mi chiedo se non sia piuttosto la volontà di combattere una sorta di oscurantismo dato dall’iperrealismo grafico, tentando di svelare quella che è l’effettiva “copia fedele della realtà”: ovvero, le storture culturali e sociali insite nei contesti del videoludico. Una sorta di inversione di prospettiva insomma, ma è un’ipotesi. Sicuramente, nell’ultimo decennio si è vista l’implementazione di sempre più strumenti di editing video-fotografico messi a disposizione degli utenti (ad esempio il famoso Rockstar Editor); pertanto, gli artisti ne hanno subito individuato potenziali d’uso riflessivo – politico, estetico, sociale, e via dicendo. Questo mi fa pensare a quello che fu il distacco di certi fotografi da pratiche di ripresa esatta del reale. Alcuni tra essi ripensarono la forma del fotografico, altri la validità del soggetto inquadrato, altri ancora rifletterono sul mezzo, sulle modalità del medium, anche a livello filosofico, anziché sulla produzione fotografica vera e propria. Si pensi a Mario Giacomelli e le sue silhouettes, all’astrattismo meditato di Roberto Masotti, alla multidisciplinarietà di Carlos Garaicoa, ai chimigrammi di Pierre Cordier. Ma ci sono delle ovvie differenze che corrono tra medium e medium, anche laddove persiste un dialogo diretto. Gli artisti che giocano con il mezzo videoludico hanno disposizione spettri del reale e livelli del virtuale che si intersecano in modi differenti e le possibilità di riflessione sugli strumenti tecnologici, sulle estetiche e su nuovi stili sono del tutto aperte.
GC: Nel tuo lavoro utilizzi i cheat, ovvero trucchi che modificano il gameplay del gioco, per esaminare le implicazioni socio economiche dei sistemi capitalistici inscritti nel sistema dell’intrattenimento contemporaneo. Indica per caso una forma di resistenza? Si nota inoltre una mancanza di mod, ovvero modifiche visive o funzionali applicate al gioco. Puoi spiegare il rapporto tra queste due attività in relazione alla tua pratica e la scelta di utilizzare soltanto una delle due?
LM: Mod e cheat rappresentano storicamente due atteggiamenti politici e funzionali in certo senso contrapposti, tuttavia complementari se non gemellari in diverse loro caratteristiche. In ambito specificamente artistico, le mod sono strumenti di ristrutturazione politica, estetica e stilistica di un videogioco, modificandolo allo scopo di aprire un discorso creativo, socio-politico, oppure di disseminare proprietà artistiche originali e riflessive (ma gli scopi non si limitano a questa lista esigua). Laddove le mod arrivano “da fuori”, dopo che un videogioco è già stato pubblicato, i cheat sono, generalmente, già integrati nel prodotto. Quindi: inseriti a priori da un programmatore o da uno studio di sviluppo – grande o meno che sia. Dunque: costrutti di codice che dialogano con il gioco e con i giocatori attraverso sfoglie ideologiche e ideative decise dagli stessi sviluppatori. Tuttavia, anche il cheat può essere inserito a priori: cambia perciò il ruolo storico con cui si è approcciato ai vari strumenti. Il mio interesse verte verso il cheatperché offre possibilità di manovra interne al discorso politico generato dal singolo artefatto videoludico. Il cheat è storicamente usato con fini goliardici, di puro divertissement e, soprattutto, può essere usato da chiunque, laddove le mod, in genere, richiedono almeno un minimo di conoscenza tecnica da parte del giocatore (comunque reperibile da qualche tutorial in rete, per casi poco complessi). Come strumento di ricontestualizzazione strutturale e di riflessione politica sul videogioco, il cheat deve essere ancora pienamente scoperto e utilizzato, poiché foriero di tante interessanti possibilità.
GC: L’impiego del mezzo videoludico in ambito artistico e le opere che ne derivano, come i machinima e la fotografia in-game, hanno molto in comune con i movimenti d’avanguardia del Novecento, specialmente con DADA e l’Internazionale Situazionista. Il videogioco viene sottoposto ad un processo di rifunzionalizzazione che ne scardina l’utilizzo consueto per trasformarlo in altro e ciò lo lega ad esempio al found footage, al remix, il readymade, ecc… In che rapporto stanno, secondo te, il videogioco, le avanguardie novecentesche e le pratiche di rifunzionalizzazione dei sistemi di gioco?
LM: C’è un rapporto stretto, diretto o indiretto, tra la sperimentazione artistica, gli avvenimenti di un’epoca e le tecnologie a disposizione. Dada sperimentò l’universo del gioco in un momento storico in cui l’Europa era dilaniata dalla Guerra, non limitandosi a focalizzarsi sulle retoriche di conflitto e le politiche economiche del periodo, ma compiendo una critica intelligente alla società moderna e alle dinamiche di produzione dell’arte. Così, anche gli artisti che rifunzionalizzano i sistemi di gioco non sono esenti dalle influenze derivanti dai loro contesti di appartenenza e dalle informazioni con cui entrano a contatto. Non è un caso che in un periodo in cui vennero pubblicati videogiochi a tematica militare come “America’s Army” (2002), “Call of Duty” (2003) e “ARMA” (2006), ci fu una controparte artistica che ne scardinava le logiche, non necessariamente avendo a che fare con le tematiche dei titoli appena menzionati. “Velvet-Strike” (2002) ha utilizzato i tools del videogioco “Counter-Strike” per disseminare messaggi anti-guerra; “Super Mario Clouds” (2002) ha rimosso tutti gli elementi ludicamente competitivi in “Super Mario Bros”; Molleindustria ha fatto grande uso del videogioco come mezzo di critica sagace e ficcante di tematiche politiche, economiche e sociali. Il videogioco è un medium che più di altri ha le potenzialità per poter attuare processi di rimediazione di pratiche artistiche, poetiche, testi politici e molto altro. La sua natura è ibrida; la sua cultura è onnivora; il suo patrimonio multilinguistico.
@Riproduzione riservata Metronom
17/02/2022