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TOM LOVELACE

Metronom: Hai inizato la tua carriera come artista prima di dedicarti alla curatela e alla docenza, come ti sei arrivato a insegnare o a dedicarti a progetti espositivi (di altri artisti) e come queste tre pratiche si influenzano?

TL: Dopo avere completato un BA in Fotografia, ho studiato arte, pratiche curatoriali e museologia alla Goldsmith University. Questo nel 2003, quindi già allora ero consapevole che il mio interesse nelle arti visive era molto più ampio rispetto all’obiettivo di creare e produrre a livello personale. Uno dei miei docenti è stato Jean-Paul Martinon e le sue lezioni sono state di grande ispirazione. In quel primo periodo di studio e di lavoro ho prodotto alcune opere poi esposte in piccole mostre organizzate nel mio appartamento a East London, dieci anni fa. Naturalmente quasi nessuno le vide, ma non era quell il punto : non erano i molti visitatori che cercavo quanto l’opportunità di mettere alla prova alcune mie idee. Alcune funzionavano, altre no, ma la caduta fa parte del processo di crescita.

Nel 2015 stavo facendo lavori part time in istituzioni museali, con ruoli diversi, alcuni più amministrativi e ripetitivi, altri più creativi e stimolanti, ma ero obbligato a lavorare nei weekend e questo piano piano stava mettendo in crisi la mia organizzazione familare. Senza nessuna vera e propria strategia ho contattato alcune Università offrendomi come collaboratore a vario titolo. E la mia carriera nell’insegnamento è inziata così: prima con lavori sporadici come workshop o lectures, che piano piano hanno portato a corsi più strutturati e continuative. E in questo momento la docenza è una parte estremamente importante della mia vita e anche del mio tempo. Insegno come Tutor in due corsi differenti e con ruoli differenti a London South Bank University e alla Glasgow School of Art e mi sento molto coinvolto nelle tematiche educative in ambito artistico e nel contesto in cui le pratiche artistiche si sviluppano.

Rispetto a come queste pratiche si influenzano a vicenda, credo che la sintesi si possa trovare nelle attività nelle quali ho coninvolto gli studenti nelle mostre che organizzo, un modo per cercare di abbassare i muri gerachici che spesso si incontrano nel contesto dell’arte contemporanea. Dal mio punto di vista ‘emergente’ ‘studente’ o ‘affermato’ sono qualificazioni poco rilevanti, ciò che conta è se il lavoro è buono e interessante, nel qual caso merita a prescindere di essere mostrato.
M: Da un punto di vista della pratica, l’insegnamento è una attività molto più di relazione rispetto a quella della curatela, ma anche rispetto a quello che ci hai detto e alle tue esperienze forse anche il processo curaotoriale segue per te consuetudini diverse?
TL: La parte iniziale del processo curatoriale rimane comunque solitaria: le idee si sviluppano in contesti diversi e tempi diversi, sia di osservazione che di pensiero. Ad esempio il progetto At Home She’s a Tourist ha abbracciato un tempo piuttosto ampio di studio e progettazione, almeno tre anni, poi c’è stata l’opportunità nel 2017 di realizzarlo per il festival Pechkam 24, anche grazie al fondamentale supporto di fondi dell’Arts Council. E questo è un modo per finalizzare. Per quanto riguarda la parte restante del progetto, quella più operativa, parte dallo spazio nel quale mi metto alla ricerca di collaborazioni su livelli diversi, sia da un punto di vista di concetto che di relazioni con l’ambiente. Il progetto With Monochrome Eyes presentato alla Borough Road Gallery è un esempio di questo approccio. Ho lavorato a stretto contatto con Daniel Alexander (responsabile del corso alla LSBU) e uno degli artisti coinvolti, Simon Terril in modo informale ma incisivo, ogni aspetto è stato discusso, valutato e condiviso.

With Monochrome Eyes, 2020, Installation View, photo Elena Helfrecht

With Monochrome Eyes, 2020, Installation View, photo Elena Helfrecht

In un certo senso il mio approccio nello sviluppare porgetto espositivi ha una parte che decisamente io avvio in modo più o meno struttato, ma ha poi bisogno di altri elementi e di altri attori per prendere la forma definitive.
M: La performance è una parte integrante del tuo lavoro sia da un punto di vista di autore che di curatore, che approccio stai adottando in questo momento in cui ogni azione live in presenza di pubblico è sospesa a data da destinarsi?

TL: L’elemento e le potenzialità performative di corpi, oggetti e apparati sono stati centrali nella mia ricerca fino dagli esordi, anche se la mia idea e il mio approccio performativo erano inizialmente funzionali alla registrazione fotografica. Nello sviluppo della pratica mi muovevo e agivo come unico attore su una scena a uso della macchina fotografica, che era il mio pubblico.

Ero particolamente interessato al modo in cui la fotografia gioca un ruolo centrale nel fornire un accesso visivo al soggetto, contestualmente negando il contatto fisico. Successivamente, immagino come sviluppo naturale e quasi di sfida, il tentativo è stato quello di concentrarmi sul corpo e sull’azione per contrastare l’immobilità dell’immagine fotografica. Questo è un processo che ho inizato alcuni anni fa e che mi sta portando verso territori interessanti: ho sperimentato azioni live a Roma, Londra, Parigi e Manchester nel 2019, con performance che stimolavano la reazione del movimento del corpo come ‘agente attivatore’ per sovvertire la fissità e immobilità delle fotografia. Concepisco questi lavori come dei collage dove immagini, scenografia e il corpo diventano tutti singoli elementi, che, quando convergono si presentano nella forma di un ‘live collage’. E’ qui dove sento maggiormente l’energia del mio lavoro, nell’impersonare, in modo molto serio, il ruolo dello spettatore, del partecipante e del performer.

Reharsing the Real è la mostra collettiva che ho curato lo scorso anno a Londra: l’elemento centrale dell’allestimento era la performance realizzata da un gruppo di laureati del Royal College: Ramona Güntert, Emma Bäcklund, Erola Arcalís, Joshua Leon and Steff Jamieson. Tutti e quattro si caratterizzano per una pratica individuale, ma io ho proposto loro di lavorare insieme e a stretto contatto durante la mostra. Per incentivare la loro collaborazione li ho invitati a considerare la galleria come se fosse il luogo di uno studio, della cucina, di un workshop. Un luogo insomma dove poter sviluppare un lavoro piuttosto che dove mostrarne solo la versione compiuta e la loro risposta è stata davvero straordinaria. I visitatori erano liberi di entrare nello spazio espositivo in ogni momento e a seconda del momento potevano incontrare non solo libri, stampe, mobili ma anche gli artisti stessi, magari impegnati in un confront sulle loro idee e i testi della performance. L’obiettivo di questo approccio è quello di mettere in discussione e forzare l’approccio spesso confortevole e passivo che l’arte contemporanea riceve.

Rehearsing the Real, live reading, 2019

Rehearsing the Real, live reading, 2019

 

 

 

 

 

M: Nei tuoi più recenti progetti curatoriali hai costruito delle strutture che ridisegnano l’ambiente in modo molto netto e costretto, come nasce questa esigenza e questo tipo di progettazione?

TL: Gli spazi e le architetture di alcune gallerie possono essere molto interessanti e di ispirazione, ma alcune non così tanto. Quello però che accomuna la maggior parte degli spazi delle gallerie è la caratteristica di essere piuttosto flessibili e neutri e questo è conseguenza dell’esigenza di avere un contenitore e uno sfondo facilmente adattabili a progetti diversi. Allo stesso modo, le strutture che ho sviluppato nel corso delle mie mostre sono un modo di creare un dinamismo, una risposta dell’architettura che lega le opere allo spazio in modi stimolanti e che combacia in modo perfetto con l’idea della mostra. Un elemento centrale nel design della mostra With Monochorme Eyes è stata la progettazione e la costruzione di un muro trasparente per allestire due lavori degli artisti: uno colorato e uno in bianco e nero. La struttura ha creato due spazi autonomi e separati per le opera ma, allo stesso tempo, ha consentito ai visitatori di creare connessioni attraverso la trasparenza.

M: La necessità di costruire questi elementi fisici e materiali è in qualche modo legata alla progressive digitalizzazione della fotografia e della altrettanto digitale modalità di fruizione immagini ?

TL: Assolutamente. Questo è molto vero, per quanto mi riguarda. Il digitale è ovviamente sempre importante, basta notare come in queste recenti settimane le piattaforme digitali e I contenitori online sono stati e sono tutt’ora utilizzati in risposta alle restrizioni imposte dale misure di contenimento del Covid-19. Ma, in ultima istanza, il mio interesse principale rimane comunque verso incontri con elementi che sono tattili e materiali. Questo è ciò che ricerco e che desidero, sia come artista che come persona, un desiderio che è profondo per esperienze che sono corporee, di incontro, fatte di tocco e di materialità. Ho riflettuto molto su questo e ritengo che la proliferazione di immagini digitali e la nostra assuefazione a questo, mi ha portato a una sorta di fuga nel mondo materiale. Tom Medwell, che è stato uno studente al Royal College, ha recentemente parlato della sua sensazione di una sorta di straniamento che lo coglie rispetto all’ambiente digitale. E sono convinto che questo non sia un caso isolato. Considero la mostra l’occasione per creare il tipo di esperienza che può portare a opportunità di confronto e di incontro reali e fisiche.

M: Quanto I tuoi studi di storia della fotografia hanno influenzato il tuo approccio alla didattica?

TL: La fotografia ha una storia molto ricca e entusiasmante, che si è costruita e formata secondo lo sviluppo delle scoperte tecniche e di riflessioni concettuali. Per me è un medium potentissimo. Ma questa storia del mezzo diventa realmente interessante quando incrocia altri ambiti della creatività e altri mezzi espressivi (la scultura e la performance, ad esempio). E’ in queste circostanze che l’inaspettato e l’insuale emergono. Il mezzo fotografico è stato fortemente influenzato da altre forme d’arte (e viceversa), quindi la storia della fotografia andrebbe approcciata secondo questo principio, anche se questo non accade spesso. Molto spesso la fotografia rimane una sorta di isola tra processo tecnico e processo creative, che porta a ignorare quanto abbia influenzato la storia dell’arte in generale.

M:  L’istruzione superiore sembra si stia sempre più caratterizzando  rispettoanche a  di ‘produzione’ o di raggiungimento di risultati, che siano pubblicazioni o mostre, più per compiacere gli alti gradi che non per effettive necessità didattiche. Qual’è la tua esperienza in questo senso?

 

 

TL: Non mi è mai capitata una situazione simile, solo in una circostanza ho avuto l’impressione che mi venisse richiesto di dedicarmi a progetti con una durata e una esistenza più tangibile del solo allestimento esposistivo. Ma in un ogni caso, ci sono diversi esempi di come una pubblicazione possa completare e integrare un progetto espositivo. NORTH (2015) pubblicata da UCL e Picking Up, Bouncing Back pubblicate dal RCA che insieme al lavoro di uno studente, Alexander Düttmann, include testi di Jean-Luc Nancy e Oliver Richon.

In realtà credo che sia necessario per le Università ragionare in termini di diversi modi e formalizzazioni per I lavori degli studenti, per cercare di allentare la tensione e il focus su un solo evento espositivo (di una settimana in media) come risultato e obiettivo di fine corso. L’attuale contingenza sta in un certo modo forzando questo processo. In UK si assiste a una diminuzione di laureate, sia BA che MA, spesso a casua di una serie di stressanti complicazioni. Se però le università sapranno innovarsi e rendersi più aperte a modalità espositive non tradizionali e allestimenti virtuali, forse, quando si potrà iniziare a frequentare nuovamente e fisicamente le università potranno farlo in un contesto modificato e avendo testato nuove opzioni. Ma per tornare alla relazione tra formazione in ambito artistico e business, credo che, come comunità di creativi, dovremmo impegnarci a proteggere le scuole d’arte e il loro funzionamento. C’è il problema dell’alto numero di studenti di queste scuole e la carenza di infrastrutture per una didattica adeguata.

 

M: Per concludere, ritieni che si possa fare di più o agire in modo diverso per creare una maggiore connessione tra scuole d’arte e in generale il mercato dell’arte?
TL: Sì certo e ci sto lavorando. Ma è complicato: i corsi di studio, quando sono ben progettati, sono in grado di creare degli ambienti di lavoro e di studio molto prolifici e immersivi in cui sono liberi di creare, riflettere, produrre e sperimentare. E questo per molti si trasforma in una sorta di rifugio. Poi, una volta concluso il corso di studi , spesso gli studenti si trovano ad affrontare il confuse, variegato e spesso soverchiante mondo dell’arte, per gli studenti è oggettivamente difficile orientarsi in questo contesto.

Ogni anno ci sono diversi studenti e diversi progetti ch meritano attenzione e opportunità, ma spesso i giovani artisti non sono pronti o alle volte non cercano nemmeno un ventaglio ampio di opportunità, appena usciti dalla scuola. Il mio caso è questo, ad esempio. In questi casi è necessario tempo per sviluppare e concretizzare una pratica o un progetto. Anche per questo molti studenti sembrano scomparire appena dopo la laurea per poi riemergere dopo tempo. Come ho già detto credo che il numero degli studenti delle scuole o dei corsi di arte sia troppo alto, soprattutto a livello di istruzione superiore e il risultato è che ci sono molti artisti diplomati e laureate con apparentemente un ventaglio limitato di opportunità. Questo tipo di industria è diventata sovrapopolata: il curatore Rodrigo Orrantia ha descritto questo scenario come una folla di persone che tenta di salire su una barca o di raggiungere un fazzoletto di terra. In questo momento è facile che una folla di accapigli per una limitata selezione di opportunità, credo sia compito degli attori principali, scuole, mercato ma anche artisti, di cercare di individuare strade e opportunità alternative a quelle consolidate.

 

 

Tom Lovelace vive a Londra, dove è Tutor al Royal College of Art e London South Bank University. Nella sua pratica artistica, centrale è l’intersezione tra fotografia, scultura e performance, guardando con attenzione alla storia della fotografia, la semantica del quotidiano e il ruolo del minimalismo nella cultura visiva contemporanea. Tra I suoi progetti curatoriali: With Monochrome Eyes, (2020); Reharsing the Real (2019); At Home She’s a Tourist (2017).

 

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8/05/2020