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Alice Palamenghi

Metronom: Vello d’oro (2020) è la terza opera video inserita nel progetto Digital Video Wall | Eden. Si tratta di una narrazione fantastica del paesaggio de Lo Internet in cui ricostruisci una mitologia della Rete e dei suoi simboli raccontando il viaggio della rivoluzione digitale e ripercorrendo i motivi iconici, i riferimenti. Quali sono le fonti di questa che può essere definita una nuova epica e come li hai tradotti nel lavoro?

Alice Palamenghi: Il centro attrattivo attorno al quale ho sviluppato i miei visual nel corso degli ultimi otto anni, è l’epica greca antica, mentre per questioni, anche generazionali, l’esito formale dei miei lavori è sempre stato un prodotto digitale.
A mio modo, racconto delle storie all’interno delle quali puoi trovare dei riferimenti ad un mondo del passato (l’ecosistema mitologico), che dopo un lungo processo di divulgazione, di revisione e di traduzione si sono cristallizzate nella forma che oggi è parte del nostro patrimonio culturale. 
Allo stesso modo racconto dell’espansione e della diffusione di un’altra frontiera, di un altro territorio che è Lo Internet (e con esso, certamente, le tecnologie che ne hanno permesso tale sviluppo).
È uno spazio che come sappiamo è in continuo rinnovamento, in continuo sviluppo, sul quale, o all’interno del quale, si trasferiscono rappresentazioni di un mondo pre-esistente (il contesto sociale, la cultura, la storia), che cioè esisteva prima di Internet. È un processo di traduzione che stratifica e ingloba oltre che il sapere enciclopedico classico, naturalmente anche le credenze “popolari”, il folklore, e le estetiche “figlie” dell’epoca che ci è contemporanea.

M: Nei tuoi lavori esplori, sperimenti e utilizzi con consapevolezza strumenti e motivi appartenenti alla grafica digitale tra glitch, datamoshing e vaporwave. Che ruolo ha e da cosa nasce questa contaminazione all’interno della tua ricerca?

AP: L’avvicinamento e la contaminazione con l’estetica glitch, o altrimenti detta dell’errore, è avvenuto come dicevo, credo prima di tutto per questioni generazionali. Ho preso parte alle prime esposizioni collettive nel 2010/11; allora l’estetica e i linguaggi glitch erano già stati accettati e normalizzati dalla comunità artistica. Intendo dire che attorno a questa modalità di lavoro vi erano già sorti dei dibattiti importanti, molta letteratura era stata scritta a riguardo e molti artisti (e molte opere), specie in ambito sonoro, avevano consegnato alla storia dei “nuovi” canoni compositivi ed espressivi.
Inoltre, la rapida obsolescenza dei dispositivi tecnologici, specie digitali,  mi ha permesso, fin dagli esordi, di poter lavorare con un vasto numero di apparecchi. Sulla scia di questo “ritardo” mi sono concentrata principalmente analizzando il Glitch nella sua forma originaria, cioè nel suo manifestarsi come errore nella lettura / trasmissione di un flusso di dati, e di conseguenza, sugli esiti formali del lavoro, che nel mio caso riguardava l’immagine.

M: L’estetica waporwave fa riferimento per suo statuto a un immaginario eterogeneo, composto di tratti espliciti e manifesti e riferimenti simbolici. Che significato ha nel tuo lavoro?

AP: I miei pezzi sono composti da simboli, per cui posso dire che essi sono “il mio lavoro”.
Le storie che compongo sono in fin dei conti delle sequenze che riflettono l’immagine di qualcosa che non è “lì” in quel momento. Questo intendo quando penso ad un simbolo: è la proiezione di un’entità che si trova fuori scena. È un’idea, un’astrazione. E come tale può essere trasportata, incorporata (proiettata) in molteplici forme.

M: Nel 1998 la rivoluzione digitale era giunta a compimento e ne era stata decretata la fine. Ventitré anni dopo, il territorio de Lo Internet veniva traversato nella sua interezza. Raggiungere la fine di Internet significa che non vi è più nulla da vedere, e non vi è più alcun collegamento da visitare. Una volta percorso ciascuno dei gangli della rete ci si trova all’esterno di questo sciame connettivo, senza potervi rientrare. Così, chi poco prima era l’essere nel mondo, poi è un viandante. E la sua, un’esclusione dalla storia, più che la fine della storia. 
Il riparo per l’abdicante nel suo vagolare è il Vello d’Oro, capace di curare ogni ferita.
Alice Palamenghi
23 marzo 2020
Londra. Primo giorno di Lockdown.

Questo è il testo introduttivo a Vello d’oro che segna l’inizio, o la fine, di una vera e propria epopea de Lo Internet. E’ stato composto a Londra, città in cui vivi, il primo giorno del Lockdown di primavera. Come questa cornice narrativa ha accompagnato questo periodo? Ci sono tratti in comune tra la fine di Internet e la fine di uno stile di vita occidentale non sostenibile?

AP: Il Vello d’Oro e le sue mitiche proprietà guaritrici è un’immagine e al tempo stesso un utensile (un tool) a cui ho pensato dopo aver preso consapevolezza di COVID-19 e degli esiti che, a quasi un anno di distanza, stiamo osservando. 
Il vello offre riparo, protezione, cura. È una sorta di coperta di salvataggio adoperata per prestare soccorso ai naufraghi, ai sopravvissuti. Chi vi si copre, o vi si veste, è qualcuno di osceno, cioè che posto temporaneamente “fuori scena”, fuori dalla storia. Il naufrago abbisogna di cure, di assistenza, e cosa più importante di essere identificato. Da ciò dipenderà il suo futuro.
Dall’idea del naufragio ho sviluppato un racconto rispetto la fine de Lo Internet non come il collasso di un sistema legato ad un errore fatale (fatal error), quanto all’improvviso cambio di paradigma che ti porta ad essere estraneo, cioè, di nuovo, “fuori scena”. Essere cioè all’esterno, oltre i confini, aldilà della frontiera e di non potervi rientrare.
Si tratta di un elemento che utilizzo da tempo, e che ho anche messo a tema assieme a Giuliano Tarlao, con l’esperienza CRUDOSTUDIO.

M: Nel 2018 hai fondato insieme all’artista Giuliano Tarlao CRUDOSTUDIO, definito “un centro di ricerca trasversale”. Potresti dirci di più su come viene sviluppato il programma e quali sono i principali argomenti che state affrontando, tenendo presente la definizione che ne avete dato?
DO ROUTINE NOT RITUALS compare al margine inferiore della home page del vostro sito, si tratta di un monito o uno stile di lavoro?

AP: “Trasversale” è un aggettivo che utilizziamo spesso, ed è uno dei minimi comuni denominatori in qualsiasi processo di ricerca, compreso l’ambito dell’arte. Nel corso del 2018 abbiamo trascorso un anno a Brescia in cui, una delle attività che abbiamo maggiormente sviluppato con CRUDOSTUDIO ha riguardato un ciclo di workshop con lo scopo di divulgare gli esiti che in qualche modo sentivamo di aver raggiunto con la nostra ricerca. Ciò significava anche discutere e raccontare lo scenario sociale e culturale di cui siamo (o di cui eravamo) abitatori.
Ciascun workshop era un ambiente di lavoro in cui i ‘ferri del mestiere’ e gli utensili adoperati per lavorare erano i concetti. Cioè idee e piccole filosofie messe al lavoro per indagare un segmento di realtà, con lo scopo di comprenderla meglio.
“Do Routine Not Rituals” è uno degli statement con cui attualmente ci firmiamo (L’altro è “Always Remember To Spread A Good Karma”) e nel contempo uno dei concetti che abbiamo utilizzato nel contesto dei workshop a cui accennavo.
Preparando il materiale di lavoro per uno di questi appuntamenti, lavorando online, la cronologia delle nostre ricerche basata sulla parola “statement” ha generato una ‘echo chamber’ di feed che puntava (o “suggeriva”) a contenuti (documenti di testo, pagine web, video, et cetera) per lo più in  ambito motivazionale: coaching, ottimizzazione della produttività sia personale che lavorativa, self-improvement. In ciascuno di quei contenuti la parola “rituale” compariva sempre.
La cosa ci ha inoltre interessato per i “vecchi” retaggi che questo termine porta con se (il sacrificio, l’aperto “sacro”, scaramantico) e del ribaltamento (adattamento) che ne è stato fatto all’interno di una specifica tipologia di contenuti.
Da un punto di vista alternativo, che sta al di fuori dall’economia e dalla logica delle piattaforme web, abbiamo lavorato rispetto lo statement (il fare una dichiarazione) sviluppandolo, ancora una volta, come un concetto, una piccola filosofia messa al lavoro. E quindi raccontare di se, dire chi si è, nominarsi, identificarsi (per tornare a quanto detto rispetto il discorso de “Il Vello d’Oro”).
Riassumendo, il nostro lavoro è il frutto di un allenamento. Un allenamento è l’esito di una routine.
Qualcosa che migliora e si sviluppa con il tempo (come un’abitudine). Nel nostro caso, la routine è qualcosa facciamo in modo da creare la condizione migliore per sviluppare la nostra ricerca (che riguarda la comprensione del reale), i nostri interessi, la nostra vita.

Alice Palamenghi (Gavardo, Bs, 1992), diplomata presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, Scuola di Nuove Tecnologie per le Arti. Attualmente vive e lavora a Londra, Regno Unito.
La ricerca di Palamenghi è un ragionamento rispetto la tecnica, in quanto tecniche e tecnologie, intesa come specchio per individuare l’umano: la tecnica è un utensile che incorpora in se i concetti, i libri, le biblioteche, il linguaggio, gli archivi. È nei suoi vestiti, nella sua cultura e nel suo sapere che risiede propriamente l’umano. In tale rimbalzo (in cui l’umano si materializza propriamente al di fuori dell’uomo), Palamenghi sviluppa il proprio lavoro modellando dei paesaggi 3D, riproponendo le tracce della presenza umana e della sua storia.

@Alice Palamenghi e METRONOM 2020
30/12/2020