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Carolina Gestri

Metronom: Nel tuo dialogo costante con artisti giovani o all’emergere della loro carriera artistica puoi riconoscere o individuare tendenze o modalità prevalenti nella fruizione di immagini in movimento?

Carolina Gestri: Direi che in generale c’è una forte propensione ad apprendere tramite internet. La generazione che passa notti intere davanti a NETFLIX è felice di arricchire il proprio bagaglio culturale tramite maratone su piattaforme come UbuWeb e Vdrome.* Questi archivi e progetti in streaming diventano come delle biblioteche per chi si appresta a lavorare con il video.

* A tal proposito consiglio un bellissimo libro di Erika Balsom intitolato After Uniqueness: A History of Film and Video Art in Circulation.

M:Lo schermo come supporto tradizionale alla visione sta perdendo il proprio connotato di unicità, lasciando spazio a nuove tecnologie come per esempio i visori per realtà virtuale e la augmented reality: a tuo parere le modalità di condivisione dell’esperienza in ambito social condizionano la riflessione sul display?

CG: Lo schermo continua ad avere un suo fascino e una sua funzionalità a mio parere insostituibili, sia come presenza scultorea all’interno dello spazio espositivo, sia come suggestivo richiamo alla sala cinematografica. Lo schermo può essere sia parte di un’installazione a più canali, sia il protagonista di uno screening programme. Lo schermo è mezzo ma può essere anche messaggio a seconda dell’importanza che si dà alla sua posizione nel contesto e alla ratio che l’artista sceglie per la sua opera. Dubito che sia destinato a scomparire anzi, molti artisti della mia generazione che stanno con un piede nel cinema e con l’altro nelle arti visive tendono all’utilizzo del monocanale e puntano al genere cinematografico-documentaristico con soggetto, sceneggiatura, troupe e cast.
La realtà virtuale ha sicuramente molte potenzialità, come catturare l’attenzione e la curiosità di vari pubblici, mettere in crisi il concetto di visione democratica-collettiva spingendoci a riflettere in maniera critica e a farci realizzare quanto internet possa condurci a vivere in un modo alienante. Come visitatore non riesco a immaginare di trovarmi in mezzo a una sala con una serie di persone che indossano un oculus rift. Lo spettatore diventa un oggetto esposto senza rendersene troppo conto. La scelta della tecnologia utilizzata deve essere coerente con il messaggio dell’opera, altrimenti si rischia di trasformare la mostra in un Luna Park spettacolare.
Credo dunque che l’augmented reality possa farci riflettere su queste tematiche in una maniera più diretta e facile, nel senso negativo del termine, di quanto orchestrato in maniera calibrata da Jon Rafman in occasione de Il viaggiatore mentale negli spazi di FMAV – Palazzo Santa Margherita, una mostra che mi ha colpito particolarmente sia per la cura dell’allestimento degli spazi, sia per il ritmo diversificato dell’articolarsi delle sale in funzione alle opere esposte creando dei veri e propri ambiente ad hoc. Mi spiego meglio. La mia paura è che qualcosa di così totalizzante come l’augmented reality non lasci spazio alla riflessione. Per permettere al pubblico di porsi delle domande è importante creare una distanza tra chi osserva e ciò che viene osservato. Video come quelli di Ed Atkins ci hanno fatto capire come un glitch, o un qualunque altro errore può essere strumentale a farci risvegliare dal mondo digitale. Questo è ciò che secondo me dovrebbe creare l’esposizione di un’opera: avviare un processo di disincantamento dall’accelerazione della routine quotidiana che non permette di riflettere su ciò che ci circonda.

M:Qual è il tuo punto di vista sull’estetica, oramai definita, after post-internet che si serve di tecnologie come la realtà aumentata e di avatar come modalità di interazione e di rappresentazione?

CG: Per me l’after post-internet non è legato a un’estetica. L’after post-internet svela i trucchi del post-internet e li accantona pur raccogliendone l’eredità. Invece di usare il green screen mostra un green screen come scenografia, in una maniera quasi archeologica.
After post-internet significa essere consapevoli della condizione post-internet e andare avanti. Sapere sì che esistono le visite virtuali, ma preferire visitare un museo di persona. Avere Google Maps nel cellulare ma decidere di non aprire la app, perdersi e ritrovare la strada chiedendo aiuto alle persone reali. Se il post-internet denunciava l’influenza della tecnologia sul nostro quotidiano, l’after post-internet ci rieduca a usare la tecnologia con moderazione facendoci apprezzare e riscoprire il reale.

M:Il periodo di incertezza che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, tra distanziamento e rarefazione, ha avuto riflessi o ti ha portato a mettere in discussione elementi della tua pratica curatoriale e della tua ricerca, al di là della contingenza?

CG:Partendo dal presupposto che ho delle difficoltà a definirmi curatrice e di conseguenza a riconoscere una mia pratica curatoriale, come un po’ tutti in questo periodo ho messo in discussione il tempo e il mio modo di utilizzarlo in maniera frenetica, apprezzando i ritmi lenti e una maggior cura nei confronti dello studio e dei rapporti umani. Spero di non dimenticarmelo e farne tesoro.

M:Lo spazio digitale in questi mesi si è offerto come unico campo di interazione, e luogo di fruizione di progetti artistici. Come la video arte, nelle sue declinazioni, può sfruttare le opportunità offerte dal digitale? Ci potresti segnalare un progetto virtuoso che è nato o ha trovato modo di svilupparsi nel corso di questi recenti mesi?

CG:Le immagini in movimento come tutta l’arte visiva adotta canali di distribuzione e comunicazione già collaudati in altri campi per arrivare a un pubblico più ampio. In questi mesi abbiamo assistito a un’inversione di marcia: i progetti artistici che hanno sfruttato lo streaming prima ancora dei Festival di cinema sono sicuramente stati precursori. Come avrai capito io difendo molto l’esperienza mostra quindi spero che le opportunità che ci offre il digitale siano viste solo come un supporto alla condivisione di contenuti per fini di studio e che non le si pensi come sostitutive alla visita, all’incontro o alla lezione di persona. Ben vengano banche dati e cinema online temporanei, ma con le opere ci si relaziona al cinema e in mostra, non con un computer o un cellulare.
Ho particolarmente apprezzato i progetti che hanno creato occasione di condivisione e sostegno per gli artisti, tra questi: ARTISTS’ FILM ITALIA RECOVERY FUND (Lo schermo dell’arte) – e non credo di essere di parte a dirlo -, a cura di Leonardo Bigazzi, Nuovo Forno del Pane (MAMbo), a cura di Lorenzo Balbi e Radio GAMeC. Degno di nota anche il lavoro fatto da alcuni tavoli di AWI – Art Workers Italia.

M:Ciclicamente la nostra società è investita da momenti di crisi che ci costringono a ricalibrare le coordinate del nostro agire. Come il sistema dell’arte contemporanea può agire in questo particolare contesto, in un’ottica a medio e lungo termine, sia da un punto di vista di sostenibilità che di modalità di relazione con gli artisti da parte dei curatori?

CG:Credo che il sistema artistico troppo spesso sia lo specchio del malfunzionamento di un paese. Dovremmo dunque fare mente locale, magari autocritica, e pensare a come strutturarsi meglio, creare nuovi modelli e modalità di fruizione, fare rete, rendersi più accessibili al pubblico, sperando che nel 2021 tutto possa funzionare meglio e nessuno creda più che gli artisti “ci fanno tanto ridere”.

 

Carolina Gestri (Firenze, 1989) è storica dell’arte, docente e curatrice.
Dal 2015 è coordinatrice di VISIO – European Programme on Artists’ Moving Images. È co-fondatrice di KABUL magazine, associazione culturale, casa editrice indipendente e rivista online. 
È docente di Fenomenologia delle arti contemporanee e di Exhibition Planning rispettivamente nei corsi di Design della comunicazione visiva di IED Firenze e di Multimedia Arts di Istituto Marangoni Firenze.

©METRONOM e Carolina Gestri, riproduzione riservata
3/09/2020