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CARSON LYNN

In occasione dello screening in corso di Storm and Stress dell’artista Carson Lynn, per FILTRO, terza edizione di DIGITAL VIDEO WALL a cura di Gemma Fantacci, Generazione Critica ha intervistato l’artista.

Generazione Critica: La tua pratica artistica si colloca all’intersezione tra fotografia e video arte, concentrandosi sulla sovversione degli spazi di gioco e la cultura maschilista del panorama videoludico contemporaneo. Puoi descrivere la tua formazione e come hai iniziato ad incorporare i videogiochi nel tuo lavoro?

Carson Lynn: Il machinima è stato in realtà uno dei miei primi sbocchi creativi. Ero ossessionato da Halo 2 quando è uscito nel 2004, e questa fissazione mi ha portato alla scoperta del machinima, in particolare le serie Red Vs. Blue di Burnie Burns e This Spartan Life di Chris Burke. In seguito, ho iniziato a realizzare i miei cortometraggi e video musicali usando Halo 3, fino a sperimentare sul mio stesso pc con l’arte digitale e la grafica, e successivamente con la fotografia. Ho proseguito la mia carriera universitaria con una laurea in fotografia poichè pensavo che fosse il mezzo più adatto da un punto di vista di stabilità economica, ma mi sono rapidamente stancato dell’omologazione nell’utilizzo del mezzo, perciò ho iniziato ad incorporare l’arte digitale e la fotografia in-game all’interno della mia pratica.

GC: Nel corso di precedenti interviste hai dichiarato di preferire una definizione di fotografia come mezzo basato sulla luce, ovvero light-based, piuttosto che quella di mezzo incentrato sulla lente, lens-based, quindi sull’obiettivo. Difatti il tuo approccio alle immagini è esattamente lo stesso sia in un mondo virtuale che in uno fisico. Puoi spiegare questo punto di vista e come ciò si relaziona con i sistemi di gioco? Cosa ti ha spinto ad utilizzare la fotografia non come un mezzo di rappresentazione ma come uno strumento per scardinare la struttura eteronormativa dei medesimi sistemi?

CL: Ho iniziato ad utilizzare il termine light-based quando ero all’università poiché vedevo che molti artisti erano particolarmente restrittivi su ciò che ritenevano essere una vera e propria fotografia. Molti fotografi inoltre ritengono che la pratica fotografica realizzata attraverso l’utilizzo dei cosiddetti cameraphone, ovvero cellulari con sistemi fotografici sofisticati, sia in un certo senso inferiore rispetto alla fotografia digitale e analogica utilizzando una macchina fotografica standard. Molti dei miei lavori fotografici realizzati all’università erano pensati proprio per far sembrare reali i mondi virtuali e finti quelli fisici. La fotografia è spesso vista come un modo per rappresentare la realtà, e mi diverte molto sovvertire questa aspettativa. Inoltre, i videogiochi moderni e la loro estetica sono fortemente influenzati dalla fotografia e dal concetto di fotorealismo, quindi parte del mio desiderio di allontanarmi da quella convenzionale è anche legato al voler ridurre il fotorealismo nei videogiochi.

GC: Un glitch è solitamente interpretato come un errore o una breve interruzione che impedisce a qualcosa di funzionare come dovrebbe. Allo stesso tempo, quello stesso glitch può riferirsi a un’estetica specifica o può rappresentare una via di fuga per “visualizzare ciò che non si conosce” per rendere queer gli spazi di gioco, come hai affermato durante un’intervista con Chris Priestman per Kill Screen. Puoi darci una definizione di glitchscape sulla base dei tuoi progetti fotografici?

CL: Considero i glitchscapes come un insieme di molteplici elementi. Una parte riguarda l’estetica: le texture glitch, iridescenti e le formazioni bizzarre. L’altro aspetto è più trasversale. I paesaggi, sia fisici che virtuali, di solito hanno spazi autorizzati e altri non autorizzati. Percorsi desiderati e aree inesplorate. Per me, la definizione di glitchscape è data dalla mancanza di confini e di ostacoli. Questo implica sopratutto considerare i confini ai margini dello spazio di gioco, dove il mondo cade nel nulla.

GC: Il concetto di countergaming di Alexander Galloway è uno dei punti centrali del tuo lavoro. Il suo pensiero si riferisce alla capacità di sfruttare il potenziale d’avanguardia politica e culturale dei videogiochi per far emergere la loro natura sovversiva, in quanto mezzi di osservazione e critica di tipo culturale, sociale e politico. Seguendo il suo ragionamento, sembra che sia l’artista a dover rompere il gioco e portare alla luce questo potenziale, che non sarebbe quindi nascosto all’interno del sistema videoludico stesso. Tuttavia, il tuo lavoro suggerisce il contrario. Pensi che il concetto di countergaming implichi che l’artista debba agire come una sorta di deus ex machina nei confronti del videogioco, oppure che esorti ad andare oltre l’uso standard e cercare i sottili difetti del sistema che possono mandare in tilt lo status quo? Cosa significa per te sovvertire l’uso previsto di un videogioco, dirottarne il gameplay?

CL: So che la discussione sul ruolo del machinima come mezzo per attuare il concetto di countergame è tuttora accesa, ma francamente per me non ha molta importanza. Sovvertire i sistemi di gioco può voler dire molte cose, ad esempio giocare male volontariamente, utilizzare glitch, oppure introdurre modifiche importanti utilizzando quindi le mod (modificazioni) e altro ancora. La serietà o lo sforzo impiegato per la sovversione non è importante. Per me, è molto più interessante l’intenzione. Cosa si sta cercando di dire con questa performance/glitch/modifica? Inoltre, penso che il lavoro più stimolante venga dalla commistione di questi metodi diversi. Modificare un gioco per ottenere un’estetica particolare (come ho fatto nel mio progetto I Want (2020)) comporta una combinazione di countergaming e machinima, ed è proprio da questa congiunzione che penso provengano le sperimentazioni artistiche più interessanti legate al videogioco: ovvero quelle che sfidano le etichette e vanno oltre i confini.

GC: Storm and Stress ha diversi livelli di lettura. Fonde la cultura videoludica con il Romanticismo e il movimento Sturm und Drang. Puoi approfondire questa particolare relazione e descrivere perché Destiny è stato così importante come videogioco? Ci sono altri movimenti artistici del passato che hanno avuto un impatto sulla tua pratica?

CL: Tutti i video di Storm and Stress sono incentrati su un particolare luogo all’interno dell’ambiente di gioco di Destiny: The Dreaming City. In questa città a tema fantasy c’è un’attività molto intensa da parte dei giocatori e durante una sessione di gioco mi sono fermato ad ammirare il paesaggio. Improvvisamente uno dei giocatori ha iniziato ad insultarmi chiamandomi con diversi appellativi omofobi, semplicemente per non aver giocato “come previsto”. Ecco l’impulso che ha portato alla realizzazione di questo progetto: il desiderio di indagare il perché questo atto fosse in qualche modo associato al concetto di querness, e se potevo esaminare più a fondo la questione attraverso una osservazione prolungata di ciò che avevo attorno. È così che la maggior parte dei miei progetti ha inizio: da un’idea o un tipo di estetica non ben definita, fino ad indagare ulteriormente certi elementi che desidero approfondire. In particolare, ero interessato ai paesaggi di The Dreaming City e ho scoperto che questi (insieme a molti altri panorami di Destiny) sono stati ampiamente influenzati da Caspar David Friedrich, mentre i pilastri rocciosi della zona riprendono il suo celebre dipinto Rocky Landscape in the Elbe Sandstone Mountains (1822). La mia ricerca mi ha poi condotto al movimento Sturm und Drang, che per coincidenza ha lo stesso nome delle mie armi preferite nel videogioco: il cannone Sturm e l’arma da fianco Drang. Anche Storm and Stress mi sembrava un titolo molto appropriato: la turbolenta tempesta della mascolinità tossica nelle comunità di gioco e lo stress che ne deriva. 

Per quanto riguarda altri movimenti artistici che hanno avuto una certa influenza sulla mia pratica artistica, ho sempre amato i dipintidell’inizio dell’Astrattismo, in particolare Irregular Forms: Creation (1911) di František Kupka. L’idea di provare a rappresentare l’invisibile ha ampiamente influenzato la mia carriera artistica. Anche con Storm and Stress ho cercato di trovare il modo di dare forma al concetto di queerness attraverso l’astrazione.

GC: Durante l’intervista con Wade Wallerstein sul canale Twitch di Silicon Valet per la residenza di Storm and Stress, hai parlato del fatto che gli spazi di gioco permettono di creare “interessanti variazioni della propria persona”. Ciò si avvicina molto alla nozione di Sarah Levitt di avatar come contenitore che presenta diverse versioni del sé all’interno di un paesaggio mediale multilivello. È un messaggio potente, che incoraggia le persone ad esplorare la propria identità e, tuttavia, sembra difficile abbracciare davvero questo punto di vista poiché ci viene incessantemente richiesto di presentare la versione migliore di noi stessi. Ovviamente, secondo gli standard imposti. Il paesaggio mediale contemporaneo è saturo di norme di vario tipo a cui attenersi, filtri da applicare e poco spazio per esprimersi. Inoltre, gli editor di avatar dei videogiochi mainstream pubblicizzano un’estrema creatività nel dare forma al proprio personaggio, ma ciò avviene in un contesto di tipo binario. Come possiamo dirottare lo status quo per creare spazi queer più sicuri senza avere paura di esprimere se stessi? Sembra più difficile all’interno della cultura videoludica, anche se ci sono videogiochi che presentano una grande varietà di personaggi, ma immagino che alla fine la rappresentazione della virilità venda di più…

CL: Penso che gran parte del modo in cui si è in grado di rappresentare se stessi all’interno degli spazi digitali è controllato dalle aziende e dalle corporazioni che creano suddetti spazi. Naturalmente, il Metaverso di Facebook è una landa sterile e mercificata colma degli avatar più insipidi che si possano immaginare. Second Life e VRChat invece permettono una libertà quasi illimitata, ed è in questi spazi che si osserva la vera libertà di espressione. Il motivo, tuttavia, sta nel fatto che i giocatori possono creare i propri avatar da zero, mentre la maggior parte degli altri giochi permette la personalizzazione dell’avatar attraverso elementi precostituiti (e solitamente all’interno di un contesto eteronormativo). Come ho detto prima, dal momento che i sistemi binari sono parte integrante dei sistemi di gioco moderni, il concetto di queerness deve essere messo al centro per creare esperienze queer più sicure ed efficaci. 

Ad ogni modo, dirottare è un ottimo termine per spiegare un fenomeno che ho riscontrato in VRChat, e di cui ho scritto nell’ultimo numero di Heterotopias (http://www.heterotopiaszine.com/008-2/). Per riassumere, ci sono molti spazi in VRChat che sono riproduzioni di ambienti di gioco esistenti in altri videogiochi, i quali vanno da ricreazioni in scala 1:1 fino a rivisitazioni creative. Questo atto di remix degli ambienti virtuali permette ai giocatori di vestire veramente i panni dei propri avatar negli spazi in cui di solito non possono esistere. Inoltre, il modding è anche un grande strumento per dirottare i videogiochi e renderli più queer-friendly. La mod Pronouns di Jake Alaimo (https://www.nexusmods.com/skyrimspecialedition/mods/43816) per Skyrim ne è un esempio, ma a volte i sistemi binari sono troppo integrati in quelli di gioco. Ad esempio può capitare che la selezione dei pronomi loro/essi (they/them) resa possibile dalla mod interrompa alcune missioni all’interno del gioco oppure che mandi in tilt le opzioni di dialogo.

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GC: Trovo uno dei tuoi commenti al progetto I Want (2020) rappresentativo del comportamento della società di fronte alle questioni di natura sociale e culturale: “Un gioco eterocentrico a cui si applica un filtro arcobaleno è e rimane un gioco eterocentrico; un’esperienza ludica di matrice queer, invece, deve essere costruita dalle fondamenta per abbracciare appieno il concetto”. Soprattutto sui social media, vediamo spesso aggiungere la bandiera arcobaleno all’immagine del profilo, nelle storie o nei post del feed poiché ci si ricorda che è la settimana del pride, per esempio. Il problema è che troppo spesso questo rimane un messaggio virtuale temporaneo della durata di 24 ore, come una storia di Instagram, anziché tramutarsi in un’azione concreta per cambiare lo status quo. La stessa cosa è successa anche durante le proteste di BLM quasi due anni fa. In quanto società, secondo te, come possiamo smettere di applicare semplicemente il filtro che ci fa più comodo ed intervenire concretamente sulle distorsioni del nostro tempo?

CL: Partecipare alle proteste, creare associazioni e fare donazioni alle cause che ci stanno più a cuore penso onestamente che sia il modo migliore per contribuire a migliorare la nostra società, ma viviamo in un’epoca in cui le cose sembrano legittime solo se documentate, condivise, ritwittate e se raccolgono like. Il filtro di per sè non è però del tutto inutile: senza, molti di questi problemi passerebbero in sordina e sarebbero ancora più gravi. In più, questi cosiddetti filtri possono anche essere un modo per imparare a conoscere più a fondo questioni che potrebbero essere facilmente ignorate dalla collettività. La mia arte può essere più vicina all’idea di filtro anziché porsi come soluzione, poiché se può condurre ad una comprensione maggiore del concetto di queerness ed ad essere più tolleranti allora ha raggiunto il suo scopo.  Le storie effimere di Instagram e le brevi tendenze dovrebbero essere il primo passo anziché l’intero sforzo. 

GC: Il primo machinima è stato realizzato nel 1996 e c’è un interessante dibattito su quale sia stato davvero il primo, se Miracle di Miltos Manetas o Diary of a Camper di United Rangers Films. Negli ultimi 25 anni, il machinima è cambiato così tanto come medium da diventare qualcos’altro: si innesta su svariati linguaggi artistici fagocitandone le specificità, partendo dalla fotografia fino ad arrivare alle rappresentazioni teatrali. Come pensi che si evolverà in futuro? La VR è ancora un campo poco esplorato, ma come supponi che si possano combinare machinima e realtà virtuale?

CL: Sull’argomento VR e machinima, raccomando caldamente la serie Half-Life VR but AI is Self-Aware di WayneRadioTV (https://www.youtube.com/watch?v=vDUYLDtC5Qw): è incredibilmente divertente e creativa, ma penso che dimostri che la VR non sia il prossimo passo per il machinima, ma che lo sia piuttosto la performance dal vivo. Half-Life VR è stato creato da un gruppo di persone che recitano le loro parti sparpagliati nel mondo, il tutto trasmesso poi in streaming per un vasto pubblico via Twitch. Se volessi fare qualcosa di simile, potrei facilmente farlo: questi spazi di gioco funzionano infatti molto bene come palcoscenici. Lo stiamo già vedendo in atto nel mondo dell’arte con la piece teatrale Welcome to my Desert Nexus di Kara Güt (https://karagut.info/desertnexus) e non vedo l’ora di vedere come si evolverà il connubio tra machinima e performance dal vivo.

GC: Parlando di machinima ed estendendo la discussione alla fotografia in-game, a volte c’è un po’ di scetticismo verso le pratiche artistiche che utilizzano i videogiochi. Tuttavia, istituzioni come il Fotomuseum Winterthur e la Photographer’s Gallery stanno facendo un lavoro notevole nel ricercare e presentare artisti che lavorano in questo campo, e diversi lavori sono proiettati in occasioni importanti come la Berlinale e la Biennale di Venezia. Tuttavia, perché secondo te c’è ancora uno stigma verso l’uso dei videogiochi come mezzo artistico e la ricerca in ambito videoludico? Che cosa si potrebbe fare di più per cambiare tale prospettiva?

CL: Sfortunatamente, gran parte di questo stigma proviene da persone che ancora considerano  i videogiochi come nient’altro che giocattoli per bambini, anche quelli più  maturi: sono qualcosa da cui staccarsi una volta cresciuti. Nella mia esperienza è molto difficile far cambiare idea a queste persone. Nell’ambito dell’arte contemporanea ci sono diversi artisti che hanno impiegato il mezzo videoludico legittimando l’utilizzo: Harun Farocki, Cory Arcangel, ecc. Tuttavia, questo normalmente non si applica a coloro che non hanno familiarità con il mondo dell’arte. Onestamente, il maggior successo che ho avuto è stato con I Want (2020) proprio a causa dell’effetto visivo applicato a tutti gli elementi dell’opera e la tavolozza di colori, avendo anche attenuato le texture e gli elementi dell’HUD. Molti hanno fin da subito una reazione avversa a qualsiasi cosa legata al gioco, ed in un certo senso rimuovere l’estetica tipica del videogioco può essere un metodo efficace per far sì che anche i più scettici della game-art possano apprezzarla maggiormente in quanto opera d’arte ed interagire con essa.

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20/01/2021

 

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