eva-prof

Eva Papamargariti

Metronom: Factitious Imprints (2016) è una perlustrazione video di diversi scenari in cui la traccia dell’uomo è visibile nei rifiuti, residui tecnologici e interventi strutturali nel paesaggio. Qual è la tu idea di Eden, tema di questa edizione del progetto Digital Video Wall?

Eva Papamargariti: Factitious Imprints ruota attorno all’idea di un paesaggio in continuo mutamento, un terreno che è amalgama di azioni umane sul mondo naturale. Penso che la mia idea di Eden sia un luogo in cui concetti come simbiosi, interconnessione ed empatia sono centrali. Un luogo inclusivo e che comprende tutte le complessità e i nodi che possono verificarsi nell’intrico tra umani, creature, cosmo naturale e non naturale. Inoltre, un luogo in cui le cose e le idee possono effettivamente cambiare attraverso l’apertura e l’accettazione.

M: Factitious Imprints è il quarto lavoro video incluso nel progetto Digital Video Wall. Si concentra sull’idea di una natura costruita e artificiale e si interroga su come possa essere documentata e definita attraverso un palinsesto di impronte che processi umani e naturali fabbricano simultaneamente sulle superfici. Sei interessata a una sorta di archeologia di un paesaggio post naturale?

EP: Sì, sono molto affascinata da questi spazi e categorie intermedi che sorgono quando i processi umani e non umani si intrecciano. Questi artefatti chimerici che vengono creati, intenzionalmente o meno, sono caratterizzati da processi del tempo e contengono al loro interno un tipo speciale di storia che non possiamo ignorare. È la storia dell’azione umana mescolata all’inevitabile processo naturale e oltre al fatto che plasma il nostro paesaggio attuale, funge anche da grande indicatore dei nostri gesti e della gestione delle risorse date, entrambi errati. Queste tracce sono importanti non solo perché esistono ma perché ci ricordano costantemente la nostra attività, sono sempre presenti anche se invisibili.

M: Una delle ultime sequenze del video è una sovrapposizione di smartphone e dispositivi tecnologici. Sono la porta della nostra trasformazione digitale o solo alcuni futuri fossili del nostro tempo?

EP: Penso che abbiano questa doppia identità e allo stesso tempo creino la loro particolare topografia intrinseca. Gli smartphone e i dispositivi tecnologici simili sono in qualche modo quasi oggetti, e sono anche attivatori, agenti – parte di una rete più ampia, un’infrastruttura invisibile e visibile che è molto legata alla nostra vita e attività quotidiana. Quindi, in modo materiale ma anche immateriale, questi oggetti che abbiamo creato, ora ci stanno plasmando spostando le nostre interazioni e il nostro paesaggio circostante, definendo inevitabilmente in modo dominante il modo in cui viviamo.

M: Factitious Imprints fa parte di un progetto più ampio che hai presentato al New Museum, New York, e al Benaki Museum, Atene. Quella versione aveva un forte carattere installativo e includeva una traccia audio: come era concepito il suono? Come hai modulare il progetto per adattarlo a una versione senza audio per il video wall?

EP: Vero, Factitious Imprints è stato presentato prima al New Museum e poi al Benaki Museum in due versioni differenti. In entrambi i casi il lavoro aveva lo stesso significato, ma è stato presentato in modo diverso perché la specificità del luogo richiedeva che anche il lavoro fosse flessibile. Il suono è sempre parte integrante del mio lavoro e Factitious Imprints non fa eccezione. Sentiamo alcuni suoni ipnotizzanti a basso ritmo, quasi come un organismo che inspira ed espira, e per di più c’è una narrazione in corso che possiamo presumere sia comunicata da un agente non umano. Il tono mutevole della voce e la sua strana sintonia suggeriscono che anche l’agente che racconta è un’entità ibrida che non possiamo definire completamente.

M: Nei tuoi lavori esplori, sperimenti e utilizzi strumenti e motivi appartenenti alla grafica digitale e ti interessa l’incrocio tra spazi e dinamiche concepiti dal digitale e IRL. Che ruolo gioca questa contaminazione all’interno della tua ricerca?

EP: È una delle caratteristiche più importanti del processo che seguo, quando cerco e concepisco un nuovo tema o lavoro. Il passo centrale nel processo creativo per me è osservare. Osservo molto ciò che mi circonda, il modo in cui le persone si comportano e si muovono, il modo in cui agiscono e si muovono anche le entità non umane, alcuni momenti apparentemente non importanti che si verificano sull’orlo dell’attività e dell’inerzia. Ma queste tracce e questi movimenti appartengono allo stesso mondo, non c’è intenzione da parte mia di separare questi stati di esistenza in digitale e IRL. Questi incroci che citi fanno parte di un’unica topografia, che puoi sperimentare attraverso lenti diverse – ovviamente il risultato differisce ogni volta a seconda di come e dove guardi. Per me questo è un rapporto molto dinamico ed emozionante, credo che una parte nutra l’altra in egual modo e questa zona grigia è dove avvengono le osservazioni più intriganti.

M: Prima del tuo master in Visual Communication Design al Royal College of Art ti sei laureata in Architettura. In che modo il tuo background ha influenzato la tua pratica e ricerca, pensa per esempio alla tua rappresentazione dello spazio e alla tua sperimentazione sulla modellazione e scultura 3D?

EP: Sicuramente, i miei studi precedenti hanno giocato un ruolo cruciale nel modo in cui percepisco e mi avvicino ai concetti e agli strumenti che uso, sia teoricamente che praticamente. Gli studi di architettura possono aprire molte strade diverse e per me è stato in qualche modo liberatorio poter collegare e combinare frammenti di conoscenza e ricerca che appartengono a vari pool di dati. Il modo in cui rappresento lo spazio e il modo in cui disegno è decisamente influenzato da questo, anche il modo in cui la telecamera si muove all’interno dei miei video è legato a un senso di movimento che deriva dal rapporto che il nostro corpo ha con lo spazio e gli oggetti che lo circondano.

M: Nella tua pratica artistica, ti rivolgi spesso ai media basati sul tempo. Come ti rapporti con i diversi modi di presentare le opere di arte digitale? C’è un mezzo che ti piace di più o dipende dalle circostanze e dai vari lavori?

EP: Certamente dipende dallo spirito del lavoro e da ciò che il lavoro porta dentro ogni volta. Il video e il suono contengono sicuramente una certa dinamica e sono molto importanti soprattutto quando cerco di creare un tipo di specifico di narrazione. Credo che gli strumenti digitali possano essere utilizzati in molti modi diversi e possano aiutare il lavoro stesso ad evolversi in varie forme e mezzi che vanno dalle stampe e sculture alle installazioni sonore e brevi sequenze di immagini in movimento. L’aspetto fondamentale in questo processo è tenere presente che ogni mezzo è un canale che comunica il lavoro, e può certamente cambiare e ottenere flessibilità per permettere al lavoro stesso di essere visibile e presente nel modo più coeso e onesto.

 

Eva Papamargariti è un’artista che lavora prevalentemente a Londra e ad Atene. La sua pratica si concentra sull’immagine in movimento ma anche su materiali stampati e installazioni scultoree che esplorano la relazione tra spazio digitale e realtà materiale. Ha esposto le sue opere in istituzioni, musei e festival come il New Museum (New York), il Whitney Museum (New York), Tate Britain (Londra), MAAT Museum (Lisbona), Museum of Moving Image (New York), MoMA PS1 (New York), Montreal Museum of Contemporary Art, Biennale di Atene, Biennale di Salonicco, Transmediale Festival (Berlino). Le sue opere sono presenti in collezioni private come Dakis Joannou Collection (Deste Foundation), PCAI Collection.

 
Photo credits: Katharina Tress
Courtesy METRONOM and Eva Papamargariti, 2021
19/02/2021