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FEDERICA MUZZARELLI

Generazione Critica: Sei coordinatrice del centro di ricerca “Fotografia, arte e femminismo. Storia e pratiche di resistenza nella cultura visiva contemporanea”. Come è nato questo progetto e come si colloca all’interno del percorso formativo dell’Università di Bologna? Come riesce un progetto accademico a entrare in stretta e fattiva collaborazione con la critica militante e con le ricerche artistiche attuali, cioè con le artiste?

Federica Muzzarelli: Come succede spesso tutto è cominciato con delle affinità elettive umane, condivise con colleghe e studiose. Ci siamo ritrovate comprendendo di essere interessate a temi comuni. In particolar modo mi riferisco a Raffaella Perna, a Cristina Casero e a Lara Conte. Sono colleghe che lavorano rispettivamente alla Sapienza di Roma, all’Università di Parma e a quella di Roma Tre.
In ambito accademico siamo in tante, e uso il femminile perché tradizionalmente sono le donne ad occuparsi di questo tema, d’altronde spesso l’interesse verso certe tematiche è spinto anche da questioni che vivi e sperimenti nella vita reale, non solo per curiosità intellettuale.

Anche se questo progetto è nato da un collettivo di donne, c’è da dire con grande orgoglio e soddisfazione che riscuote, in Accademia e in ambito universitario, grande interesse nei colleghi e nei giovani uomini, e questo è un lato positivo e un segnale di grande cambiamento. Negli anni ‘80 e ‘90 era veramente un mondo di sole donne quello che studiava le questioni sulla parità di genere. Spero che questa nostra realtà sia un’anticipazione di un futuro prossimo, dove dichiararsi femminista per un uomo non sia una cosa eccezionale.

Tornando al gruppo di ricerca, i nomi che ho citato sono pochi rispetto all’intero panorama italiano, penso al lavoro e agli studi di Laura Iamurri, di Elena Di Raddo e di Carla Subrizi, solo per citarne alcune.
Quando con le colleghe abbiamo iniziato a progettare il Centro di ricerca che si chiama “Fotografia Arte Femminismo”, un progetto in comune tra i nostri atenei sui temi dell’arte e della fotografia femminista, c’è stata la fortunata coincidenza dell’uscita di bandi chiamati PRIN con cui il Ministero si proponeva di finanziare attività di ricerca universitaria di interesse nazionale, questa dicitura non è indifferente perché comporta che il progetto debba avere anche una ricaduta nel sociale. In genere nel nostro ambito disciplinare vincono altri tipi di progetto, diciamo più tradizionali negli approcci e nel metodo. Invece questa volta, probabilmente tra la sorpresa di molti colleghi, lo vinciamo noi questo progetto nazionale, tra l’altro uno dei pochissimi dedicati all’arte contemporanea.
Questo progetto, partito nel maggio 2022 e di durata triennale avrà diversi esiti, tutti mirati a mettere insieme quello che è il soggetto della nostra ricerca, ovvero la storia delle donne nella fotografia italiana, dalla nascita di questo mezzo fino agli anni ’80. Ci poniamo i seguenti quesiti: in Italia, le istituzioni pubbliche e private hanno dato valore alle donne fotografe? Ne hanno parlato le riviste? I musei hanno messo in mostra i loro lavori? I collezionisti le hanno comprate?
La parte migliore è che ci lavorano giovani dottorande e dottorandi, assegniste e assegnisti di ricerca, borsisti. Durerà fino a maggio 2025 e credo sia un’occasione molto importante.

Per quanto riguarda l’aspetto della critica militare, attualmente non rientra esattamente nella mia principale occupazione. Però penso a colleghe più giovani, come Raffaella Perna, che riesce a fare ricerca e a muoversi attivamente nel territorio della curatela e dell’attività critica. Io ragiono con il principio dei vasi comunicanti, è difficile che tutti facciano tutto, anzi è meglio che ognuno faccia il proprio lavoro perché ci sono svariate sfumature professionali. A mio parere, più questi settori sono permeabili e comunicanti, più facciamo il bene dell’arte contemporanea italiana.

GC: Facendo un riferimento numerico, brutale, ma per prenderli a indicatori, il Museo di Fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo, che custodisce uno degli archivi italiani più significativi e ampi dedicati alla fotografia italiana del dopoguerra, conta in collezione 1280 autori, solo 192 sono donne. Come interpreti questa tendenza, che oltre ad essere minoritaria, sembra quasi poter essere definita elitaria: una questione di formazione, di professione o di potere?

FM: Tra i partner del progetto, che quindi andavano accreditati al momento della domanda, ci sono realtà italiane molto importanti come il MUFOCO, lo CSAC e Archivia, e man mano che il progetto procede ne stiamo coinvolgendo tante altre. Credo che l’occhio straniero – le revisioni più encomiastiche del progetto sono state quelle dei colleghi stranieri – abbia valorizzato l’idea di una situazione non ancora studiata, non ancora approfondita nel nostro Paese e per questo anche dall’estero se ne è percepita la necessità. Lavori e mostre di questo tipo sono già stati fatti a livello internazionale, pensiamo solo alla Germania, alla Francia, agli Stati Uniti ovviamente.
Quindi la risposta alla tua domanda è sì, e ciò è senz’altro esito di contesti sociali, politici e culturali, così come della presenza o assenza di reti capaci di accogliere e dare spazio e voce alle comunità di riferimento. Il progetto intende fare proprio questo, cioè considerare i vasti archivi fotografici di realtà come il MUFOCO e lo CSAC e dimostrare che queste sono solo una parte di quella che è l’intera produzione delle donne fotografe italiane di cui seguire e raccontare il flusso di valorizzazione e storicizzazione che hanno avuto. Sappiamo bene che ci sono importanti collezioni che si stanno focalizzando sull’attività delle donne, ed è in quella direzione che vorremmo andare.

Conoscere e capire prima di tutto, farsi un’idea complessiva di quale sia stato il lavoro delle donne fotografe italiane, e solo da qui formulare poi un giudizio sereno ed equilibrato. Ricordiamoci che stiamo parlando di una storia della fotografia italiana che ha praticamente ignorato le donne nella loro quasi totalità.

Mi viene in mente il grande lavoro fatto da Luce Lebart e Marie Robert “A World History of Women Photographers” (La storia mondiale delle donne fotografe): è vero che questo tipo di progetti hanno sempre dei difetti perché non possono essere davvero universali ed esaustivi, ma è un segno non indifferente il fatto che le fotografe italiane presenti sono solo cinque. Inoltre, io sono stata l’unica studiosa italiana ad essere stata invitata a contribuire con dei brevi saggi, quando invece nello specifico delle vicende italiane ci sarebbero anche altre colleghe più esperte. Il motivo? Penso sia importante dirlo: per la lingua. Noi abbiamo una saggistica molto raffinata, ma purtroppo siamo marginalizzati dalla lingua, non veniamo tradotti e di conseguenza il nostro pensiero originario non esce dai confini nazionali. La mia fortuna è stata di avere avuto “Il corpo e l’azione” tradotto in francese, ma non dovrebbe essere così. Idealmente, tra gli esperti di un campo di ricerca si dovrebbe avere una panoramica generale di chi si occupa di cosa. Mi sento però di essere ottimista su questo, nel senso che, rispetto alla mia generazione, i giovani che incontro ai concorsi scrivono e pubblicano su riviste e collane editoriali internazionali molto più di quanto succedesse anni fa, e questo fa pensare bene per il futuro.

Lezione al Master in Technology for Fashion Communication, Fondazione Fashion Research Italy, Bologna 2016 (Photo by Margherita Cecchini) ©

Lezione al Master in Technology for Fashion Communication, Fondazione Fashion Research Italy, Bologna 2016 (Photo by Margherita Cecchini) ©

GC: La parola femminismo ha oggi accezioni evolute, per così dire, rispetto a una definizione, uso e percezione del comune sentire oltre che del linguaggio. Se negli anni Settanta e Ottanta certo quello militante, della protesta e del collettivo era quello dominante, l’arte e soprattutto la fotografia sono state viste, studiate, praticate come spazi di libertà personale, prima di tutto. Sia di espressione che, più tardi, di emancipazione.
Come si legge, in una prospettiva intersezionale, la pratica del femminismo oggi? Chi sono le studiose o gli studiosi di riferimento nel dibattito italiano e internazionale?

FM: Tra le tante studiose che oggi si occupano di fotografia secondo una prospettiva di genere, mi sento di nominare una studiosa verso la quale ho una particolare predilezione; è una studiosa di estetica, una filosofa con una capacità interdisiciplinare notevole negli interessi e nella capacità di sviluppare gli argomenti. Sto parlando di Claire Raymond, che ha scritto qualche anno fa un saggio dal titolo “Women Photographers and Feminist Aesthetics”. Di questo saggio apprezzo ciò che ho cercato anche io di applicare, ovvero un’idea di femminismo declinato nel lavoro delle donne fotografe che va al di là della consapevolezza personale – parliamo soprattutto delle pioniere di fine Ottocento e inizio Novecento – e che vede nella parola femminismo la valorizzazione di un modo di porsi e di raccontarsi tramite la fotografia anche al di là della militanza diretta. Tutte le volte che non ci si sente parte del mainstream, tutte le volte che si sta denunciando, raccontando imposizioni sociali, dogmi mal sopportati, marginalizzazioni esistenziali o professionali, cioè tutte le volte che quel lavoro fotografico ha le caratteristiche della resistenza a qualcosa, allora lì si sta sperimentando una dimensione femminista. Claire Raymond usa questa espressione, che io trovo molto efficace, ‘advocate feminism’, advocate significa appunto difendere, sostenere. Tra fine Ottocento e inizio Novecento, in Italia, il solo fatto di fare la fotografa era una forma di femminismo. Poi lo è diventato il fatto di riuscire a emergere – parliamo di casi come quelli di Wanda e Marion Wulz, di Rosa Rosà – casi di emancipazione, partecipazione alla vita sociale rivendicata in modo orgoglioso. Dopodiché, nel secondo dopoguerra diventa anche una causa militante, una partecipazione radicale e consapevole. Però devo ammettere che io trovo affascinanti quelle situazioni di inconsapevolezza, del fare qualcosa perché lo sento, una sorta di bisogno esistenziale.

Sono alla stesura finale di un testo intitolato “Fotografia e femminismo”, che fa riferimento al periodo storico più al centro della mia ricerca, ovvero la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che guarda alle produzioni tra fotografia, scritture e pittura nella forma dell’album di famiglia, un oggetto che è da sempre considerato una letteratura di serie B perché è una produzione tipica delle donne. Proprio gli album di famiglia, i diari autobiografici e fotografici, sono stati un veicolo di femminismo molto affascinante proprio perché tenuti ai margini della cultura sofisticata e pubblica.

GC: Il tuo ambito di ricerca coinvolge anche lo studio e l’analisi del rapporto tra fotografia e arti visive nella comunicazione della moda. Si assiste, oggi e da alcuni anni, a un crescente interesse rispetto a quello che in modo più o meno appropriato si definisce ‘female gaze’, ci sono esempi di importanti case di moda e marchi del lusso che dedicano risorse non solo economiche ma strutturando spazi di ricerca e di azione collaborando con artiste, in particolare fotografe, donne.
Come leggi questa tendenza sia in un’ottica di studi – cioè spazi di ricerca fuori dal contesto accademico – che di azioni, impiego e disponibilità di risorse molto più alto rispetto al contesto artistico anche di livello museale.

FM: Fin dall’inizio il mio interesse di ricerca era incentrato sulle donne fotografe. Quando nel 2006 sono entrata all’Università, ho ottenuto una cattedra al Campus di Rimini dove già dalla fine degli anni Novanta l’Ateneo di Bologna aveva fatto nascere progetti formativi sulla cultura della moda. Si può dire perciò che la moda è entrata quasi di forza nei miei interessi di didattica e di ricerca. All’inizio ero abbastanza diffidente riguardo al fatto che un mondo emblematico della dimensione del lusso, come la moda, diventasse un’area di studi a livello universitario. In realtà nel mondo i Fashion Studies sono una realtà consolidata da molto tempo e semmai era paradossale che in Italia, con una storia del Made in Italy che tutti ci invidiano, gli esempi di Corsi di Laurea dedicati alle tante professioni che sono richieste da questo settore chiave della nostra industria e cultura fossero pochissimi. A livello di interessi di studio personali, la cultura della moda è poi diventata per me un terreno interessante principalmente per due questioni: la prima è che la storia della fotografia di moda è un capitolo interessantissimo, e non solo ovviamente per i grandi autori che ne hanno fatto la storia ma anche a livello di strumento di comunicazione e di costruzione degli immaginari sociali, e poi perché la sua ricchezza in fatto di implicazioni di tipo identitario mi ha permesso di riuscire a coniugarla con i miei interessi più saldi che erano quelli di un approccio disciplinare legato ai gender studies. Ancora oggi insegno a Rimini (oltre che a Bologna) e, oltre alla storia della fotografia di moda, discuto ampiamente le questioni di genere affrontate con la fotografia nella moda: penso a come Claude Cahun è stata un modello di ispirazione per Maria Grazia Chiuri; penso a come Annemarie Schwarzenbach ha ispirato Antonio Marras, e non solo. Ciò che non si può trascurare è che la moda è un linguaggio che può arrivare davvero a tutti. Faccio un semplice esempio: molti giovani non avrebbero forse studiato o incontrato nella loro vita figure come Claude Cahun, Annemarie Schwarzenbach o Frida Kahlo. È chiaro che vedere Frida Kahlo come oggetto di merchandising ci può apparire davvero un modo per rendere il suo lavoro una banalità stereotipata, al tempo stesso dobbiamo accettare l’idea che la moda arriva laddove l’arte, purtroppo, il più delle volte non riesce. Allora io credo che se la moda riesce, in certi casi virtuosi, a portare avanti delle idee, a veicolare dei messaggi come quelli delle istanze femministe – penso alla già citata Maria Grazia Chiuri – allora compie una parte di lavoro molto importante per tutti al di là che faccia il suo lecito business.

Conferenza di Paolo Roversi (con Fabriano Fabbri), Corsi di Laurea sulla Moda, Campus di Rimini, Università di Bologna, 2023 (Photo by Mariella Lorusso) ©

Conferenza di Paolo Roversi (con Fabriano Fabbri), Corsi di Laurea sulla Moda, Campus di Rimini, Università di Bologna, 2023 (Photo by Mariella Lorusso) ©

GC: Quali sono i percorsi di studi che un giovane o una giovane studentessa può immaginare per approfondire questo tipo di tematiche? Ci sono dei consigli che puoi dare riguardo a dei percorsi di carriera formativa? Come dialogano, se non si contrappongono, o come potrebbero dialogare in maniera fattiva due enti che sono paralleli per questo tipo di lavoro, cioè le università e le accademie? Per esempio, a Bologna c’è questo Ateneo molto forte ma, allo stesso tempo, anche un’Accademia di Belle Arti molto importante. Quali sono i percorsi migliori per garantirsi delle prospettive, tutto sommato, di carriera?

FM: Innanzitutto parto da qualcosa che noi, quando eravamo studenti, non avevamo e cioè i siti internet universitari in cui formarsi delle idee molto ampie di cosa offrono gli Atenei (parlo per Bologna anche se so che non è proprio così in tutta Italia): sono chiari, si vede tutto il percorso di studi, chi sono i docenti, di cosa si occupano, i programmi dei corsi, le bibliografie di riferimento, i contenuti delle lezioni, veramente tutto. Quindi, il suggerimento migliore che posso dare, sembra ovvio ma vi assicuro che non lo è, è di non accontentarsi di informazioni sommarie e di sfruttare ciò che si ha oggi la fortuna di poter verificare in modo molto approfondito e chiaro.
Un altro strumento che noi non avevamo è l’iniziativa per le scuole superiori che si chiama Alma orienta e che è stato un grande sforzo del nostro Ateneo per spiegare l’offerta formativa di tutti i Dipartimento, poi ancora si possono ascoltare le lezioni via Teams o andare fisicamente dentro le aule.

Ovviamente se si è interessati alle Arti e alla creatività in generale, il DAMS rimane un punto di riferimento. Oggi ce ne sono tanti in Italia, ma quello di Bologna è notoriamente stato il primo e continua ad essere uno dei più rappresentativi, ma ce ne sono altri molto buoni. Poi dopo il triennio, come è il DAMS, ci si può iscrivere a un corso magistrale che rappresenta la fase di specializzazione del sapere e delle competenze. Certo, avendone le possibilità si può sperimentare un percorso di studi all’estero dove ci sono dipartimenti dedicati ai Gender Studies, ma anche in Italia ci sono ottime magistrali che prevedono percorsi internazionali, totalmente in inglese. Quindi non mancano le occasioni di internazionalizzazione.
Poi è chiaro che se uno ha le capacità, l’interesse, l’ambizione, può partecipare ai bandi di dottorato per cominciare la carriera universitaria e fare della ricerca uno degli aspetti chiave del suo futuro professionale.

Per quel che riguarda l’Accademia, vorrei poter collaborare molto di più i colleghi che ci lavorano. Abbiamo collaborato in alcune attività progettate tra studenti universitari e studenti dell’Accademia: ricordo un bel progetto in cui lavori artistici di studenti di Accademia sono stati esibiti in una mostra curata dagli studenti universitari. Certo ci sono colleghi di Accademia che tengono contratti di insegnamento all’Università ma, potendo, si dovrebbe e potrebbe fare molto di più in fatto di condivisione e collaborazione. Ma devo dire che non è una questione di volontà, è semplicemente una questione di tempo, di forze e di risorse umane. L’obiettivo finale sarebbe rimettere in circolo e ripristinare quello speciale contesto artistico e culturale che c’era a Bologna negli anni ’70 ma anche ‘80, invidiato in tutta Italia e non solo. Noi vedremo di fare la nostra parte.