JON URIARTE
Generazione Critica: La tua formazione era incentrata sulla fotografia dal punto di vista autoriale. Come è nato l’interesse per un approccio curatoriale durante la tua carriera di artista? Una delle tue prime esperienze è stata quella di curare il “Photobook Club” a Barcellona e da quel momento hai poi preso parte a una serie di iniziative e incarichi che ti hanno portato nel 2019 ad essere curatore delle rassegne digitali all’interno di The Photographers’ Gallery. Qual è stato il filo rosso che ti ha guidato in queste esperienze?
Jon Uriarte: Ho fondato The Photobook Club Barcelona con l’obiettivo di incontrare persone interessate ai libri di fotografia. Ho visto su Facebook (che a quel tempo era il social network più attivo) che qualcuno stava cercando di avviare qualcosa di simile nel Regno Unito e ho deciso che potevo provarci anch’io. Ha funzionato davvero bene per alcuni anni e mentre organizzavo gli incontri ho conosciuto buoni amici. Poi, qualche anno dopo, con tre amici abbiamo avviato Widephoto, un’iniziativa curatoriale ed educativa autosufficiente. Abbiamo invitato artisti che ammiravamo a venire a Barcellona o in altre zone della Spagna per condurre workshop, spettacoli e conferenze. Non abbiamo prosperato economicamente perché a malapena pareggiavamo i conti, ma siamo riusciti a portare artisti internazionali come Jason Fulford o Adam Jeppesen, abbiamo vinto l’open call curatoriale di Can Felipa con una bella mostra collettiva e abbiamo collaborato con importanti istituzioni locali come il CCCB o Foto Colectania su diversi progetti. Quasi contemporaneamente sono stato invitato da Foto Colectania a curare DONE, un programma che guarda all’immagine nell’era post-digitale. Il primo dei tre DONE, nel 2016, prevedeva una serie di discorsi senza che il pubblico fosse fisicamente presente, era consentito partecipare solo online. All’epoca era una proposta piuttosto radicale, poiché sarebbe passati anni prima che si diffondesse Zoom e non eravamo affatto abituati alle conferenze online. Tuttavia, abbiamo raggiunto un pubblico piuttosto interessante attraverso quel programma. Successivamente, sono stato uno dei curatori selezionati da Parallel, una piattaforma europea per artisti e curatori, dove ho avuto l’opportunità di curare una mostra a Le Chateu d’Eau a Tolosa (Francia) e di incontrare molti colleghi internazionali. Mentre ci lavoravo, sono entrato a far parte di The Photographers’ Gallery (TPG), dove curo la rassegna digitale dall’estate del 2019. Allo stesso tempo, sono stato invitato a curare Getxophoto, uno dei festival di fotografia più prestigiosi in Spagna che si svolge nelle strade e negli spazi non convenzionali di Getxo, nei Paesi Baschi. Dato che il mio ruolo in TPG è part-time, ho potuto lavorare anche per Getxophoto dal 2020 al 2022.
Potrebbe sembrare ingenuo, ma mi piace incontrare persone con cui condividere interessi, opinioni, domande e idee. Le mostre possono essere un ottimo format per farlo e mi piace molto lavorare con gli artisti, anche se a volte può essere difficile ottenere un vero scambio di conoscenze con il pubblico. Altri format, come Screen Walks – una serie di eventi in live streaming che abbiamo avviato nel 2020 insieme a Marco de Mutiis, curatore digitale del Fotomuseum Winterthur – offrono un’interazione diretta con il pubblico che apprezzo particolarmente.
Mantengo anche una forte curiosità verso idee, tecnologie e pratiche popolari a me nuove, e nel condividere e discutere ciò che ho imparato con gli altri. Questi interessi mi hanno tenuto vicino all’istruzione e alla ricerca, altri due campi in cui mi piace impegnarmi.
GC: All’interno della programmazione di The Photographers’ Gallery, in qualità di responsabile del dipartimento digitale nell’ambito della cultura visiva e della fotografia, tu curi il Media Wall, uno spazio espositivo permanente nato nel 2012 che per la sua peculiare posizione sulla parete esterna dell’edificio trasmette contenuti video h24. Fin dal suo inizio, con la mostra “Born in 1987: The Animated GIF” nel 2012, il Media Wall si definisce dalla sua costante attenzione alle trasformazioni digitali nella fotografia e al modo in cui la cultura digitale sta cambiando il nostro approccio alle immagini. Penso ad esempio a “Camera Ludica”, il video di Marco De Mutis che esplora l’uso della fotografia all’interno del videogioco presentato a parete nel 2018; o ancora il contributo di Tamiko Thiel con “Lend me your Face!” nel 2021 in cui l’artista esplora la capacità della macchina di apprendimento nel sostituire il volto di una persona con quello di un’altra. Pensi che con l’esperienza del Media Wall sia stato possibile creare una comunicazione, sia artistica che educativa, con il pubblico? E che tipo di motivazione ti ha portato alla sua programmazione?
JU: Quando sono entrato a far parte di The Photographers’ Gallery nel 2019, il Media Wall era l’esposizione principale della rassegna digitale. Mostra opere d’arte digitali dal 2012, quando Katrina Sluis è stata nominata prima curatrice del programma. Si trovava al piano terra e aveva una posizione privilegiata in quanto primo allestimento che i visitatori incontravano al loro ingresso. Era visibile dalla strada attraverso le vetrine, rendendolo accessibile ai passanti anche quando la galleria era chiusa. Anche la sua posizione vicino al caffè della galleria, oltre le scale che scendono verso il bookshop al piano inferiore, lo rendevano speciale, in quanto non era il solito scenario del cubo bianco. Il piano terra della galleria può essere affollato, con i visitatori che camminano su e giù per le scale o chiacchierano al bar. Anche se il contesto circostante era impegnativo in termini di offrire interazione dal vivo e attirare l’attenzione del pubblico, le sue dimensioni (2,7 x 3 m) e la sua posizione proprio all’ingresso lo rendevano molto visibile e accessibile. Le sfide che il Media Wall ha dovuto affrontare all’interno dell’edificio potrebbero essere una bella metafora di quelle che la cultura digitale deve affrontare quando viene condivisa sui social media. È difficile raggiungere il tuo pubblico quando navighi in spazi in cui regna l’economia dell’attenzione.
D’altra parte, credo che molte delle opere che sono state esposte nell Wall abbiano scosso intensamente le tradizioni della fotografia, sollevando con successo molti sopraccigli che varcavano ogni giorno le porte della galleria. I lavori che hai citato e altre commissioni di noti artisti come Heather Dewey-Hargborg, James Bridle, Anna Ridler o Joana Moll sfidavano molte nozioni fotografiche e invitavano ad avvicinarsi a fenomeni visivi digitali che di solito sono considerati superficiali, come ad esempio i LOLCats, con un approccio rigoroso e giocoso. Altre questioni rilevanti come le tecniche e il processo di produzione dell’immagine digitale, l’impatto dei social media e della loro politica, l’emergere della visione artificiale e il suo sviluppo sono stati affrontati durante i 10 anni del Wall.
Quando l’edificio è stato chiuso durante i lockdowns della pandemia di COVID-19, il team del programma digitale ha lavorato con gli artisti incaricati per creare estensioni online delle loro opere che sono state pubblicate su unthinking.photography, la nostra piattaforma online. Subito dopo, il Media Wall è stato dismesso come spazio espositivo diventando (l’ennesimo) display di marketing. Da allora, il programma digitale si è esteso oltre lo schermo curando le installazioni all’interno dell’edificio – Apian di Aladin Borioli e A·Kin di Aarati Akkapeddi –, nelle strade del Soho Photography Quarter – Open Space è un programma di tutoraggio AR e commissione di artisti che prende il controllo del nuovo spazio di arte pubblica nelle strade intorno alla galleria – e online su Unthinking Photography.
GC: Come curatore della rassegna digitale e responsabile del Media Wall presso la galleria The Photographers’, potresti scavare dentro la ricerca sulla fotografia e la sua digitalizzazione. Se prima l’interesse era dedicato alle ampie possibilità che la piattaforma o i sistemi digitali potevano dare, adesso diventa urgente e doveroso parlare anche dell’impatto che tale produzione e proliferazione di immagini ha sull’ambiente. The Photographers’ Gallery, in collaborazione con il Centre for Study of the Networked Image (CSNI), ha avviato una serie di pubblicazioni e attività finalizzate alla ricerca sugli effetti ecologici della circolazione delle immagini denominata “The image at the End of the World”. Qual è il cuore di questa programmazione e come pensi che questo tipo di ricerca possa cambiare il nostro rapporto con i contenuti digitali?
JU: Il programma digitale della Photographers’ Gallery è un progetto di ricerca sperimentale. Il nostro obiettivo è includere un’ampia gamma di pubblico che interagisce con la cultura digitale, compresi gli adolescenti della Gen Z che utilizzano filtri facciali, scienziati informatici che sviluppano il software per renderlo possibile e accademici che cercano di scoprire tali strumenti e pratiche. Collaboriamo regolarmente con le università su eventi, simposi e progetti di ricerca a lungo termine e abbiamo appena aperto il terzo round di una borsa di studio per un dottorato in collaborazione con il CSNI. I due precedenti ricercatori erano Nicolas Malevé che ha lavorato alla tesi “Algorithms of Vision. Human and machine learning in computational visual culture”, e Marloes de Valk e la sua continua ricerca sull’impatto, materiale e sociale, che ha l’immagine in rete sulla crisi climatica.
Entrambi i progetti di ricerca sono diventati parte centrale dell’interesse del programma digitale. Nicolas Malevé ha contribuito notevolmente a unthinking.photography, ha mostrato un lavoro nel Media Wall, ha condotto esperimenti con lo staff della galleria ed è stato molto influente sullo sviluppo di Data/Set/Match, un programma di un anno che esamina set di dati visivi. Allo stesso modo, la ricerca di Marloes de Valk è stata fondamentale per noi per apprendere l’impatto ambientale delle tecnologie che utilizziamo e per sviluppare diversi programmi, come la serie di commissioni e attività che abbiamo svolto in concomitanza con l’incontro COP26 a Glasgow, o il più recente Small File Photo Festival.
GC: A proposito di questa attenzione all’impatto che un’immagine digitale può avere sull’ambiente, avete organizzato nel gennaio 2023 lo “Small File Photo Festival”: il festival incoraggia e celebra la fotografia di piccolo formato che significa mostrare opere d’arte che hanno uno specifico basso peso in kilobyte. Il festival è partito da una open call a contribuire: come è stato, da curatore, affrontare contenuti così specifici? E pensi che sarà possibile un Rinascimento digitale in cui le piccole immagini sostituiscano l’ossessione per i file di grandi dimensioni?
JU: Lo Small File Photo Festival è stato suggerito da Marloes de Valk che, come ho accennato in precedenza, sta lavorando al suo dottorato di ricerca con una borsa di studio in collaborazione tra la TPG e il CSNI. Lei conosceva lo Small File Media Festival, fondato dalla studiosa Laura Marks in Canada quattro anni fa, e ci ha suggerito di seguire il loro esempio. Il nostro festival includeva una open call per file con foto di piccole dimensioni che ha ricevuto più di 400 proposte da molti paesi diversi. Durante il festival abbiamo ospitato un workshop con Restart Project in cui i partecipanti hanno smontato uno smartphone e ne hanno studiato i componenti; una passeggiata fotografica organizzata da DigiCam.Love – una rete di appassionati di fotocamere digitali retrò; una serie di conferenze e presentazioni; una cerimonia di premiazione e una mostra online con le candidature selezionate e vincenti.
Tutti gli eventi e le attività sono stati ben frequentati da una comunità mista di persone. Alcuni di loro con un interesse verso le tecnologie digitali retrò e la loro estetica, altri con una preoccupazione ambientale. Rispondendo alla tua domanda, non intendiamo sostituire le immagini ad alta risoluzione con file di dimensioni inferiori, ma iniziare a pensare all’impatto materiale che queste tecnologie hanno ed esplorare collettivamente altre possibilità che potrebbero essere altrettanto interessanti in termine estetico e poetico. È ormai ovvio che abbiamo raggiunto un punto critico del sistema capitalista estrattivo in cui, oltre alle emissioni, le risorse non rinnovabili diventeranno scarse. La promessa dell’infinito aumento e miglioramento dovrà essere affrontata prima o poi e dovremo trovare alternative, anche nel campo della fotografia e delle arti digitali.
GC: “The Image at the End of the World, Small File Photo Festival” insieme al programma di attività realizzate nel 2021 “COP26: Sustainable Photography in an Unsustainable Wold?” sono esempi della necessità di portare nel pubblico, specialistico e non, tali temi. Qual è il tuo obiettivo all’interno di tali attività culturali e qual è il prossimo passo che vorresti compiere in quest’area di ricerca e produzione artistica?
JU: La COP26 e la SFPF hanno entrambe origine in relazione alla ricerca di dottorato di Marloes de Valk. Sono i nostri tentativi di creare un programma pubblico accessibile e coinvolgente attingendo dalla ricerca accademica su cui sta lavorando. Il nostro obiettivo è tradurre la ricerca in un altro linguaggio che possa essere raggiunto e partecipato dal nostro pubblico. Il prossimo passo è pubblicare diversi articoli su Unthinking Photography che accompagneranno quelli che abbiamo pubblicato finora.
Allo stesso tempo, il nostro obiettivo è che i progetti di ricerca di cui facciamo parte non abbiano un impatto solo sul programma curatoriale. Alcuni hanno anche portato a cambiamenti sulle infrastrutture che utilizziamo, come ad esempio la migrazione dell’hosting di Unthinking Photography a un hosting green o la partecipazione alla task force ambientale della galleria.
GC: Percorrendo la tua carriera è chiaro che hai un legame molto profondo con le immagini, è persino possibile vedere una sorta di romanticismo dietro il modo in cui ti relazioni con i contenuti visivi. Penso ad esempio all’esperienza di “You must not Call it Photography If This Expression Hurts you”, un’iniziativa collettiva che mira a provocare il discorso fotografico tradizionale. La fotografia per te sembra essere un’identità con cui parlare e con cui relazionarsi come se avesse le sue emozioni e sentimenti. Quali sono i tuoi desideri per la crescita della fotografia in un futuro dove sembra esserci sempre meno attenzione e cura nei confronti delle immagini e sempre più ossessione e abuso delle stesse?
JU: “You Must Not Call It Photography If This Expression Hurts You” è un collettivo nel quale Katrina Sluis, Marco de Mutiis e io abbiamo iniziato a sfidare le nozioni tradizionali della fotografia. Abbiamo giocato con l’idea romantica della fotografia come identità perché è uno dei suoi soliti luoghi communi. Ad esempio, la morte della fotografia è stata annunciata così tante volte da chi vuole mantenere lo status quo, che ormai potrebbe essere considerata uno zombie 🙂 .
Non ho alcun interesse che la fotografia cresca, è abbastanza interessante e complessa così com’è e continua rapidamente a diventare sempre più complessa. Desidero che le organizzazioni, i collettivi e gli individui che la sostengono, la praticano e la preservano si rendano conto e si aggiornino sui drammatici cambiamenti che il mezzo sta attraversando. Gran parte del pensiero sulla fotografia sta esaminando pratiche datate che esistono solo all’interno delle stesse istituzioni fotografiche, mentre le culture fotografiche aziendali e quotidiane si sono spostate altrove. Sembra che stiano ancora cercando di rivendicare il proprio posto accanto ad altre pratiche artistiche, focalizzate sulla canonizzazione delle proprie specificità tradizionali come parte della storia dell’arte occidentale, invece di prestare attenzione, mettere in discussione o impegnarsi nel come si sta evolvendo.
Non credo che la fotografia stia ricevendo meno attenzione. Ha perso significato come strumento di rappresentazione, ma le immagini in rete sono risorse economiche molto rilevanti, strumenti di propaganda politica o elementi giocosi di comunicazione quotidiana per citare alcuni dei suoi altri ruoli. Viene schiacciata economicamente, armata politicamente ed è diventata uno degli elementi più rilevanti del tessuto sociale in rete.
Se pensiamo alla fotografia solo come stampe accuratamente realizzate a mano appese a una cornice con un passe-partout, allora potremmo pensare che un selfie con quella fotografia incorniciata che circola su una piattaforma di social media ne sia un abuso – anche se usare il termine abuso nei confronti di una fotografia non sembra corretto in quanto si fa uno sfortunato confronto antropomorfizzante. Ma se, ad esempio, pensiamo a quel selfie come a un metodo per presentarsi pubblicamente in relazione a una particolare opera d’arte/artista/argomento/estetica/spazio espositivo potrebbero sorgere altre domande più rilevanti. Potremmo anche mettere in discussione le politiche algoritmiche che prendono parte al processo di circolazione e di visibilità di quell’immagine; o sull’accessibilità e la portata di condivisione che le fotografie dell’utente sui social offrono alle mostre fisiche; o sul processo tecnico che avviene quando si scatta un’immagine computazionale di uno smartphone; o su come quell’immagine possa finire per diventare parte di un grande set di dati utilizzato per addestrare algoritmi di visione artificiale e qual è l’impatto che potrebbe avere. Ma se invece continuiamo a pensare alla fotografia racchiusa nella sua cornice tradizionale, allora molto probabilmente non potremo che continuare a lamentarci della sua morte.