MILO KELLER
Generazione Critica: Dal 2012 sei responsabile del dipartimento di fotografia presso ECAL/Ecole cantonale d’art de Lausanne, prima di essere docente in questa scuola sei stato anche studente, come è cambiata la scuola e come è evoluto il percorso di studi rivolto agli studenti di fotografia?
Milo Keller: Da vent’anni stiamo vivendo e partecipando ad una rivoluzione fotografica. Ho cominciato i miei studi all’ECAL/Ecole cantonale d’art de Lausanne (ecal.ch / @ecal_photography) all’inizio del nuovo millennio. Si leggevano i classici: “La Chambre Claire” di Barthes e “On Photography” di Sontag, “Ways of seeing” di Berger. In principio, si lavorava con camere analogiche e passavamo lunghe ore nella penombra rossastra del laboratorio bianco e nero oppure, per le stampe a colori, nell’oscurità più totale. Era un lavoro chimico e fisico, accompagnato da pesanti infrastrutture: camere, cavalletti, luci. Dagli anni Novanta, la fotografia aveva cominciato la sua inesorabile conversione verso il digitale per diventare incredibilmente malleabile, in particolare grazie a un programma nuovo: Photoshop. Durante i miei anni di studi le tecniche sono evolute rapidamente verso l’ibridazione: scatti in analogico poi scansione delle pellicole, ritocchi in digitale e stampe a getto d’inchiostro. La tecnica d’illuminazione era principalmente flash: una sorgente di luce quasi magica, potentissima e praticamente impercettibile a occhio nudo. Sul piano stilistico eravamo influenzati dalla scuola di Düsseldorf e dai famosi allievi dei Becher: Thomas Struth, Thomas Ruff, Candida Höfer e Andreas Gursky. La fotografia commerciale era ancora legata alle riviste stampate che avevano grandi mezzi e diffusione e nella moda, in cui il discutibile porno-chic caratterizzava canoni estetici e contenuti.
Poi l’immagine fotografica ha cominciato ad essere immagine in rete (network image) prima in internet e, dal 2004 con Facebook anche sui social. Meno pellicole, meno stampe, meno riviste per una valanga d’immagini digitali in più. Le fotocamere si sono trasformate in videocamere e i fotografi sono diventati registi. Oggi le immagini fotografiche sono spesso visioni composite (composte da una moltitudine d’immagini), risultate da operazioni algoritmiche invisibili che costruiscono automaticamente una rappresentazione della realtà. L’ECAL è una scuola che non ama accademismi, gli insegnanti sono prima di tutto dei professionisti: artisti e fotografi commerciali propensi a connettere gli insegnamenti alla pratica, al loro mestiere. Per stare al passo con i tempi, parte dei contenuti dei corsi cambiano in continuazione: ci si adatta alle tecnologie che da nuove sono rapidamente sorpassate, si studiano i nuovi mercati cercando di individuarne le prospettive artistiche e commerciali e si leggono altri autori come Vilém Flusser con “Towards a Philosophy of Photography” o ancora James Bridle con The new Dark Age.
GC: La tua posizione da docente ti consente un osservatorio e un contesto di scambio generazionale privilegiato. Come influisce questa tua esperienza nella tua ricerca e nella tua pratica di fotografo?
MK: Godo sicuramente di una situazione privilegiata, alimentata da una conversazione costante non solo con gli insegnanti ma anche con studenti e assistenti. Spesso la spinta al cambiamento viene “dal basso” da esigenze e tematiche che le nuove generazioni iperconnesse vivono in prima persona e che desiderano elaborare nei progetti di studio. Gli insegnanti più giovani sono “naturalmente” sintonizzati alle esigenze degli studenti mentre quelli più sperimentati beneficiano di una distanza critica necessaria per capire fenomeni passeggeri, tematiche cicliche e cambiamenti epocali. Sul piano tecnico cerco di essere sempre aggiornato: se da studente utilizzavo molto il banco ottico, oggi lavoro con una camera phaseone (medio formato digitale), volo con un drone e utilizzo i nuovi filtri basati sull’intelligenza artificiale di Photoshop 22. Malgrado l’evoluzione tecnologica, nella mia pratica fotografica resto fedele a una visione minimale ottenuta attraverso la distillazione di idee e di forme non per mancanza di mezzi, ma per scelta.
GC: Analogico e digitale, che significato ha assunto, oggi, questa dicotomia? E’ ancora una dicotomia?
MK: Chi scatta ancora in analogico? Alcuni artisti e certi appassionati fra i quali i miei studenti.
Non penso sia più pertinente parlare di dicotomia fra analogico e digitale siccome la fotografia numerica domina tutti i settori dal commerciale ai processi di produzione artistica. Guardiamoci intorno, la svolta è avvenuta: la Kodak è fallita e non si torna più indietro. Ciononostante, all’ECAL continuiamo a credere nel valore plastico e pedagogico della pellicola e insegniamo ancora ai nostri studenti a lavorare con un banco ottico, a sviluppare film e stampe in bianco e nero. La comprensione fisica dei processi fotografici permette una migliore comprensione della loro traduzione digitale. È anche una questione piacere per una manualità che continua ancora ad affascinare i più giovani e che prernde importanza in un mondo smaterializzato. La nuova dicotomia è da cercare fra il reale e il virtuale dove le immagini foto realistiche di scene inesistenti si intrecciano (e si confondono) nella nostra esperienza visiva. È questa la dicotomia all’origine dei miei progetti di ricerca.
GC: Recentemente hai avviato “Augmented Photography”: un progetto di ricerca focalizzato sulla questione della materializzazione e de-materializzazione dell’immagine fotografica. Come si sviluppa e che tipo di azioni ha messo in campo? Credi che la condizione pandemica abbia accelerato l’attualità di questo dibattito o era una tendenza già in atto?
MK: “Augmented Photography” è una ricerca ormai conclusa che è stata avviata nel 2016 insieme al nuovo Master in Fotografia che ho elaborato per l’ECAL. Il progetto ha permesso di dare un’identità e un programma al nuovo master forgiandone i contenuti. La ricerca è stata articolata in due direzioni: la materializzazione della fotografia in forma scultorea o in istallazione e la de-materializzazione della fotografia come conseguenza diretta della sua digitalizzazione. La tensione fra materia e dati numerici si è manifestata in tendenze contrapposte: da un lato il mercato dell’arte che (prima degli NFT) voleva oggetti unici, esclusivi e fisici e dall’altro la pressione commerciale principalmente operata dalla Silicon Valley per la diffusione a larga scala di immagini in rete. Queste realtà di mercato sono state fra gli spunti per lavorare in maniera sperimentale e pratica sulle possibilità creative offerte dalle “nuove” tecnologie mentre una riflessione più teorica e prospettiva elaborava proiezioni sul divenire della fotografia.
Dallo slancio del primo progetto di ricerca, e considerando che oggi la maggioranza delle immagini sono prodotte da macchine per altre macchine senza nessun intervento umano, abbiamo lanciato un secondo programma: Automated Photography (automatedphotography.ch) che analizza i processi automatici nella produzione e distribuzione di immagini fotografiche. Sul piano pratico sono state sondate le potenzialità creative di tecnologie come la fotogrammetria, i droni, il LIDAR, ed alcune applicazioni d’Intelligenza Artificiale. Sul piano teorico si sono discusse le tensioni sociali, politiche e economiche di un sistema che genera immagini che tende a fuggire dal nostro controllo diretto.
La condizione pandemica ha sicuramente accelerato lo sviluppo di tecnologie di comunicazione a distanza capaci di portare in casa lo streaming del lavoro, dell’educazione e ancora più di prima dell’intrattenimento personalizzato. Questa situazione ha messo in luce l’importanza (e il monopolio) d’industrie che offrono servizi “gratuiti” capitalizzando la nostra attenzione e il nostro tempo (“attention economy”).
GC: Realtà aumentata, realtà virtuale, fotogrammetria, CGI, lo scenario di utilizzo delle immagini si sta più che ampliando e modificando. Sempre più spesso la locuzione ‘economia dell’immagine’ viene utilizzata per riferire di un trasversale e allargato ambito di competenze e di utilizzo, che inquadra anche quello delle arti visive. Da un punto di vista della produzione, che tipo di competenze sono necessarie per muoversi in modo consapevole e professionale in questo contesto?
MK: Effettivamente c’è una convergenza interessante tra immagini fotografiche che hanno nature diverse ma un fondo culturale comune. Un primo gruppo è basato sul principio fotografico tradizionale de “la scrittura della luce” su una superfice fotosensibile come una pellicola analogica o un chip digitale. Dall’altra ci sono delle immagini fotografiche artificiali create tramite programmi di CGI (Computer Generated Imagery) come Blendero Cinema4d che simulano la proiezione e riflessione di fonti luminose su soggetti creati virtualmente in 3D sul computer. Queste immagini hanno delle caratteristiche fotografiche ma non sono delle vere fotografie: non sono basate su scene che esistono nella realtà fisica e materiale. Le immagini fotografiche del primo e del secondo gruppo si basano sulla cultura visiva che è a sua volta una costruzione basata sulla nostra storia ed esperienza. L’economia dell’immagine spazia in forme che possono sembrare lontane ma che hanno delle radici comuni ed evoluzioni specifiche. Spesso i mezzi virtuali riproducono delle funzioni analogiche che vengono tradotte in forma digitale. Ad esempio, per la creazione 3D, i software si apparentano a studi fotografici virtuali e le scelte che operiamo sulle fonti di luce, sulla tipologia della camera impiegata, sull’inquadratura si relazionano alle nostre esperienze nel mondo reale. Questi legami avvantaggiano le persone che hanno una formazione classica in fotografia che possono ritrovare delle competenze analoghe in chiave digitale.
GC: Grafica, progettazione architettonica, computer game ma anche medicina, è vero che si può dire, in un certo senso, che pensiamo per prima cosa attraverso le immagini? Questa è davvero una rivoluzione culturale?
MK: I neonati prima vedono poi comunicano con suoni ed espressioni ed infine imparano a parlare. Oggi la comunicazione è dominata da immagini che sfilano sui nostri smartphones che cercano di intercettare la nostra attenzione, i nostri istinti visivi. Le immagini non conoscono barriere linguistiche ma sono soggette a letture polisemiche e talvolta ambigue rispetto alla cultura di produzione e di ricezione. Se l’educazione alla scrittura è una pratica universale, l’educazione all’immagine resta spesso un’opzione marginale. È un paradosso della nostra condizione contemporanea: comunichiamo sempre di più con immagini ma manchiamo dell’educazione necessaria per analizzarle e gestirle. La vera rivoluzione culturale avverrà quando la scuola (a partire dall’elementari) si metterà al passo con i tempi. Detto questo, penso che la cultura scritta non sia da opporre a quella visiva ma al contrario va anch’essa sostenuta e articolata.
GC: L’arte digitale sta entrando, per quanto in modo lento ed episodico, nella sfera di interesse di istituzioni e musei, a vocazione tradizionalmente dedicata alla fotografia. Penso a due esempi virtuosi, al Fotomuseum di Winterthur o alla Media Wall della Photographers’ Gallery di Londra.
Diventa sempre più necessario pensare ad un diverso paradigma di gestione e progettazione culturale che sappia leggere con competenza ambiti affini e allo stesso tempo formalmente distanti?
MK: Per fortuna ci sono delle istituzioni coraggiose come il Fotomuseum a Winterthur, la Photographer’s gallery a Londra, FOAM ad Amsterdam e il C/O Berlin che sono capaci d’incrociare forme fotografiche più tradizionali con nuove proposte digitali. In questi musei lavorano i miei interlocutori, la mia comunità d’avventura pronta ad esplorare i confini della fotografia abbracciando nuove dimensioni. Questa apertura progressista è necessaria non in una visione di rottura rispetto al passato ma nella ricerca di una continuità di scambio intergenerazionale.
GC: Design e architettura, quanto oggi la fotografia riveste un ruolo prioritario nella generazione di immagini come ‘arte applicata’? Quanto lavoro di studio c’è ancora nella tua ricerca?
MK: La fotografia fa da sempre un doppio gioco, con un’ambiguità che le permette di essere considerata come un’arte applicata e come un’espressione libera in arte visiva. La sua tecnicità, la sua riproducibilità la esclusa per tanto tempo dalle “arti visive” permettendole di ottenere un successo commerciale. La mia attività si concentra principalmente sugli insegnamenti e ricerche per l’ECAL ma continuo a svolgere rari progetti “d’arte applicata” per designer e architetti amici che condividono una visione comune.
GC: Inventore, costruttore e giudice delle immagini, questo il ruolo che uno studioso come Arnheim affida agli artisti; il risultato finale, l’opera d’arte visuale, è individuata come il risultato di un processo di pensiero. Una analisi dell’immagine che comprende anche il modo in cui le immagini vengono guardate può condurre a una visione meno stereotipata e strumentale del lavoro dell’artista, del designer o del grafico?
MK: Le immagini sono degli oggetti di mediazione fra gli artisti (applicati e non) e il pubblico. Questa relazione può svilupparsi in modo emotivo e intuitivo oppure su livelli più intellettuali. Certe immagini sono univoche altre più stratificate e complesse. La stessa fotografia può essere vista in superfice e analizzata in profondità. La maggioranza delle immagini fotografiche sono funzionali senza spessore e senza storia con un’utilità limitata a un tempo determinato. Come per il nostro sistema cognitivo che funziona con la memoria a breve e a lungo termine certe immagini si imprimono nella nostra coscienza e altre scompaiano nel flusso visivo inarrestabile. Oggi in molti si domandano se l’Intelligenza Artificiale può sostituirci nell’insieme dei processi creativi più complessi che, per riprendere Arnheim, intervengono dall’invenzione, alla costruzione e al giudizio delle immagini. Per ora, a livello visivo, questo tipo d’intelligenza resta meccanica e sterile: impara a produrre “nuove” immagini analizzando banche d’immagini prodotte da umani. Non è ancora nata l’intelligenza artificiale autonoma capace di produrre uno stile nuovo, un concetto complesso, una sinestesia. Le opportunità sono oggi da ricercare nella collaborazione fra le macchine e noi. Forse è solo questione di tempo, forse è una speranza vana ma per ora gli autori sono i grafici, fotografi, designer e artisti che hanno ancora il privilegio della soggettività.
Milo Keller (1979, Lugano, Svizzera) è un fotografo e professore, conosciuto per il suo lavoro fotografico negli ambiti dell’architettura e del design. Dal 2007 insegna presso l’ECAL/University of Art and Design Lausanne. Dal 2012 Keller ha curato numerose mostre e pubblicazioni in Svizzera e all’estero, inoltre ha organizzato una serie di conferenze e attività di ricerca all’interno dell’ambito dell’immaginario Computer-Generated, realtà aumentata e intelligenza artificiale.
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10/03/2022