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TAISUKE KOYAMA

Duncan Wooldridge intervista Taisuke Koyama in occasione della mostra “Waves and Particles“, personale dell’artista ospitata in Metronom (31 maggio – 27 luglio 2019)

> Duncan Wooldridge: Penso che forse dovremmo partire dall’esperienza visiva che lo spettatore vive quando si trova di fronte al tuo lavoro per la prima volta. Da fruitore, ho percepito subito l’importanza del colore, in particolare del colore inteso come campo visivo, come piano e superficie. E ho notato che proprio su quei campi e superfici, il colore pare fluttuare. C’è una qualità ottica che mi ha subito attirato. Potresti dire qualcosa a riguardo, in particolare circa l’esperienza che credi lo spettatore viva fruendo i tuoi lavori?

> Taisuke Koyama: La fotografia può essere quantificata tramite informazioni e dati e concepita come un’immagine composta da pixel o particelle. Tuttavia, essa ha una qualità materica che non può essere misurata mediante la digitalizzazione. Questo aspetto complesso della fotografia mi spinge a condurre ricerche sempre in un’ottica di sperimentazione.

Ho iniziato a concentrarmi sul colore fin dalla serie Rainbow Variations(2009) e la maggior parte dei miei lavori recenti riguarda l’analisi dei colori generati dall’elaborazione aritmetica. Nelle mie opere, il colore è la chiave per entrare in una prospettiva critica dell’immagine fotografica.

Per quanto riguarda l’esperienza percettiva, non penso che lo spazio espositivo sia un luogo così definito da poter riuscire sempre a sperimentare o percepire ogni volta la stessa cosa.Sebbene il cubo bianco punti a uno spazio puro, è in realtà pieno di rumore. La fotografia come oggetto, ha sì le informazioni fissate all’interno della propria superficie, ma quando le immagini vengono collocate nello spazio, improvvisamente queste vengono circondate da rumori. E quei rumori sono gli elementi che fanno sì che l’opera esista come entità.

Gli elementi che compongono il mio lavoro fotografico sono i dati digitali. Pertanto, le fotografie potrebbero essere percepite come perfette in uno spazio digitalmente simulato. Tuttavia, paradossalmente, penso che un lavoro diventi reale solo nel momento in cui viene esposto in uno spazio con molte interferenze e ‘rumore’. In questo caso con rumore mi riferisco a qualsiasi elemento che influisca sull’esperienza percettiva.
Nell’ultimo anno uno dei temi principali che ho affrontato, è stato quello di creare, attraverso il mio lavoro, un ambiente ad hoc all’interno dello spazio espositivo. E, per ora, non vorrei sviluppare le immagini in uno spazio virtuale 3D, ma in uno reale per percepire fisicamente l’immagine. In quello stesso spazio, attraverso i movimenti del nostro corpo, percepiamo la luce riflessa sulla superficie dell’immagine e il colore che cambia visivamente.

> DW: È molto interessante il modo in cui si crea questa connessione tra fisco e digitale, soprattutto pensando al pixel come un’unità atomica o come qualcosa di simile a un atomo. E il tuo interesse a collocare il tuo lavoro proprio in quello spazio rumoroso e fisico di cui parli, sembra essere l’estensione concreta del processo di pensiero che genera l’immagine stessa. Sembri voler sottolineare che non è solo lo spazio a cambiare continuamente (come la nostra esperienza), ma anche l’immagine e la fotografia… potresti dire di più su questo?

> TK: Mi piacerebbe dire un po’ di più sull’esperienza di percezione delle opere. Poco tempo fa ho partecipato a  Tokyo a una mostra collettiva intitolata Illuminating Graphics 2: l’obiettivo della mostra era quello di fruire le opere sia nello spazio reale che in realtà aumentata. I lavori proposti erano vari: c’erano fotografie, dipinti, alcune sculture e opere video. Nell’ultima sala dello spazio espositivo è stata progettata un’area dedicata alla realtà aumentata, che consentiva agli spettatori di percorrere virtualmente la mostra, in parte anche uscendo dalla sala, usando un controller.

Da un lato il mio lavoro è fatto di dati RGB, quindi collocandolo in uno spazio AR si è in qualche modo più vicini a percepire le informazioni digitali originali, anche se risoluzione e dimensioni differiscono tra un ambiente AR e uno reale. Dall’altro lato, le opere fisiche collocate in uno spazio concreto sono prodotte su una carta lucida, generate da una stampante a getto d’inchiostro e incorniciate.

La mostra proponeva una riflessione sui diversi ambienti in cui le opere erano esposte.La risposta dipende anche dal nostro senso della realtà e dalla precisione dello spazio AR (nell’era 5G, sarà realizzato uno spazio AR come “mondo speculare”, totalmente sincronizzato con la realtà, ha dichiarato Kevin Kelly). Ma ho anche sentito dire che l’opera incorniciata, nello spazio reale, sembrava corrispondere di più a un’opera d’arte.

Ad ogni modo, non credo che l’immagine in sé (in questo caso la stampa) stia cambiando. Certo, si altera a causa dell’ossidazione e dell’invecchiamento, ma non penso che l’immagine sia concettualmente cambiata. Penso che la cosa più importante sia la sua capacità di interiorizzare il cambiamento. Per me, la fotografia è il mezzo capace di registrare variazioni, mutazioni, transizioni e trasformazioni. Tutto sta mutando, su entrambe le scale, sia micro che macro, ma l’essenza dell’immagine è fissata al suo interno, nell’atto stesso della sua creazione. Ciò che viene presentato è il processo di cambiamento, anche se l’immagine in sé rimane quiescente. Ed è una dimensione dinamica, in movimento. D’altra parte, sono interessato a produrre anche immagini realmente in movimento, come presentazioni e lavori video. Il primo slide-show che ho creato era intitolato High Speed Slide Show, e proiettava migliaia di foto alla velocità di dieci foto al secondo; in questo lavoro, il tema era il rapporto tra l’immagine e la sua percezione. Il mio approccio al video è iniziato osservando i riflessi del sole, poi, quelli della luna piena: entrambi sono luci mobili e tremolanti e la relazione tra luce e movimento è per molto importante, perché è correlata alla visualizzazione dell’immagine. PICO-INFINITY, un’applicazione video realizzata nel 2016, è l’espressione più immediata dei miei pensieri sull’immagine e il cambiamento. L’algoritmo che genera l’opera non ripete mai lo stesso ordine di immagini, ma cambia concettualmente all’infinito. L’immagine non è quella che registra il cambiamento, ma il movimento.

> DW: Sono lieto che tu abbia utilizzato il verbo “generare”, concetto così parte integrante del tuo processo di lavoro, sia che si tratti di un paesaggio urbano, del motivo visivo dell’arcobaleno o di un’astrazione fotografica. Hai usato la fotografia come un mezzo che va ben oltre la rappresentazione, andando verso qualcosa di complesso e ricco, che allo stesso tempo è quasi ‘evanescente’ – nel senso che qualità e dettagli potrebbero essere persi, appiattiti, offuscati o ridotti -ma hai anche, e questo è raro in fotografia, capito come l’immagine sia generativa, capace di produrre continuamente nuoveimmagini. “Rainbow Variations”, insieme a “Melting Rainbows”, ha per te dato origine a questo processo, e mostra il modo in cui uno stesso motivo può essere ripreso e rivisitato. Ma mi chiedevo se potessimo parlare anche di Light Field e di Nonagon Photon, e di come queste due serie si relazionano al tuo interesse per la scienza. Qui hai legato più esplicitamente il tuo lavoro alla ricerca sull’energia e la luce, i fenomeni e la percezione, vero? Come concepisci i concetti di luce ed energia in rapporto all’attenzione del tuo lavoro per l’idea del “generare”?

 > TK: Per me, Rainbow Variationsè uno studio sui feedback loop e sull’amplificazione dell’immagine. Nonagon Photon(eTidal Lines) e Light Fieldsono stati prodotti in diverse fasi. In Nonagon Photon, di cui ho iniziato la produzione nel 2010, ho registrato i riflessi sfocati della luce del sole tremolante, e in Tidal Lines, che è stata prodotta nel 2013, ho registrato le tracce della luna piena riflessa sulla superficie del mare durante l’alta marea. Entrambe le serie si concentrano sul fatto che le informazioni della luce naturale immesse dal dispositivo fotografico vengono trasformate poi da un software, che genera un’immagine nuova, diversa rispetto a come la percepiremmo naturalmente.

Inoltre, inNonagon Photon, le immagini sono scattate in luoghi diversi e sono state mescolate e in Tidal Linesla sequenza di scatti di circa un’ora e dieci minuti è stata ritagliata in 160 parti e l’ordine è stato modificato. Questo è per concentrarsi solo sul movimento della luce, separando l’immagine dalla timeline naturale.

Light Field, realizzata a partire dal 2015,utilizza come input per la lettura delle informazioni la luce di uno scanner. Questa scelta non è motivata solo da interesse scientifico, ma originariamente aveva lo scopo di creare un’immagine con una “luce di input” che potesse trasmettere un valore di informazione più vicino possibile allo zero. Con il procedere del lavoro, Light Fieldha portato alla creazione di immagini in modo estremamente fisico e basato su azioni concrete. Il titolo della mia ultima mostra “Waves and Particles”, infatti, deriva dalla duplice natura della luce: onde e particelle. Queste sono anche gli elementi che consentono la trasmissione dell’energia.In Nonagon Photonho visualizzato e catturato la luce, scattando una foto ai raggi solari, inLight Fieldl’ho scansionata mediante l’azione fotografica, misurandone la potenza, in termini di intensità ed energia). Né la luce riflessa del sole né la luce di ingresso dello scanner potrebbero essere viste naturalmente in questo modo. Si tratta, infatti, di una “osservazione trasformata”. Parlare di “fatti” reali non ha senso in questo contesto; i fatti cambiano a seconda del modo in cui li guardiamo, e la fotografia è l’attività per potenziare i risultati dell’osservazione. Penso sia importante che il soggetto venga trasformato nella sua generazione, come credo fondamentale creare una realtà che sia fotografica.

> DW: Mi piacerebbe concentrarmi sul rapporto tra fotografia e astrazione. Negli ultimi dieci anni c’è stata un’emergenza significativa nella fotografia astratta, ambito a cui il tuo lavoro contribuisce e prende anche nuove direzioni. Sei arrivato all’astrazione per cambiare il modo in cui tu e lo spettatore guardate le immagini? Cosa ti ha portato fin qui?+ì

> TK: Fin da bambino, il mio interesse è stato per i dettagli. Ho iniziato a studiare l’ambiente naturale, concentrandomi ad esempio su specie vegetali presenti nella foresta ed ero ossessionato dall’immagine astratta formata dalle macchie e dai graffi sulla loro superficie. Ci sono state diverse fasi nello sviluppo e nell’approfondimento dell’astrazione nel mio lavoro. Non è stata affrontata come premessa per la definizione degli obiettivi di quello che volevo esprimere visivamente, ma la sua centralità deriva dal mio essermi concentrato sul processo di creazione dell’immagine, che a sua volta utilizza parametri di trasformazione come contingenza e casualità.

Generare immagini attraverso parametri di trasformazione è stato molto importante per me nell’ultimo decennio, questa rilevanza è chiaramente legata al modo in cui gli strumenti digitali si sono evoluti per facilitare la creazione di immagini fotografiche “belle”. Io ero interessato a scoprire le immagini in modo alternativo, analizzando il dispositivo di input e il softwareHo iniziato a concentrarmi profondamente sulla generazione delle immagini quando ho creato Melting Rainbows, nel 2010. Ma non si trattava solo astrazione.Ricorro a vari elementi come fenomeni naturali, azioni fisiche, errori nei dispositivi digitali, applicazioni e così via. Nel processo di conversione per generare un’immagine, l’astrazione e la reificazione avvengono simultaneamente.Quando l’immagine diventa astratta, porta concretezza a livello microscopico.

Più di recente sono spesso ricorso a immagini concrete di Tokyo, come i paesaggi urbani dei cantieri industriali. Questo atto di ripresa è come una registrazione sul campo, un atto di raccolta di materiale per la generazione di nuove immagini successive. Ho notato un nuovo punto di vista e sono arrivato a scattare con una visione più ampia.Attualmente, a Tokyo, si sta svolgendo una ristrutturazione su vasta scala in numerosi luoghi in vista delle Olimpiadi. Shibuya, Shinjuku, Tokyo Bay Area, ogni luogo è pieno di recinti e reti di sicurezza. E quei materiali coprono la città con una nuova superficie. Questa stessa condizione mi ha permesso di percepire il paesaggio urbano come una nuova superficie.

> DW: Una questione chiave ma spinosa, riguarda come l’immagine risponda oggi ai concetti di  velocità e trasmissione.Penso che ci troviamo in un momento in cui c’è un divario molto ampio tra due poli, tra lo scambio continuo e sempre crescente di immagini “rappresentative” (che definirei immagini prevalentemente a basso attrito) e come alternativa, una fotografia meno familiare, pensosa, complessa e spesso materiale (che io ritengo componga un immaginario ad alto attrito).

 Forse pensare a concetti come attrito e luce – mettendo in relazione fotografia e termodinamica – insieme al tuo interesse per la scienza e le qualità della luce, mi fa ritenere che tutto questo possa in qualche modo riferirsi al tuo lavoro.Mi interessa notare come, sebbene lavori esclusivamente con le tecnologie digitali – sinonimo di processo veloce e di tecnologia rapida – le tue opere non richiedano un’accelerazione e non siano da esperire velocemente. Questo tipo di esperienza nelle tue installazioni e mostre non sembra funzionare. Il tuo lavoro sembra invece richiedere l’opposto e ha un effetto diverso, quasi di decelerazione, che crea attrito e pare quasi un po’ porre resistenza. Ci vuole del tempo per vedere e capire cosa presenti. In questo senso, ti interessa “rallentare” la tecnologia? O credi che sia qualcosa presente nelle tue opere ad aver generato questo approccio al tempo?

> TK: Ho accettato attivamente l’evoluzione dell’elaborazione aritmetica. Negli ultimi 10 anni, le fotocamere, i computer, i software e le stampanti che uso hanno continuato ad accelerare.

Alle mostre di fotografia contemporanea, in particolare quelle che raccolgono fotografie che sembrano astratte e prive di contenuto (penso che nella maggior parte dei casi l’importante sia che le immagini “esistano”), stia diventando difficile guidare il pubblico a guardare in profondità le opere. Gli smartphone hanno definitivamente cambiato il modo di vedere e le modalità con cui esperiamo le immagini. Molte persone ora sono convinte di poter accedere a informazioni visive più velocemente. Tuttavia, dobbiamo riflettere attentamente sul significato del verbo “vedere”, capire se si sta osservando qualcosa in profondità o semplicemente si sta sfogliando un catalogo di immagini.

Come dici tu, il piccolo atto di resistenza del mio lavoro è, certamente, quello di cambiare la convezione dell’aria e l’angolo di riflesso della luce, causando un attrito nello spazio in cui è installata l’immagine. “Vedere” qualcosa, significa concentrarsi sulle cose banali e trovare i fattori scatenanti per riscoprire il mondo. Per questa ragione creo uno spazio espositivo per rallentarci, ricorrendo a immagini generate dalla tecnologia digitale ad alta velocità. In realtà, non tutte le tecnologie sono veloci. Anzi, è più la quantità di dati elaborabili ad aumentare. Con il software di recupero dati che utilizzo per generare i miei lavori mi ci vogliono circa dieci ore per un processo di ‘scansione approfondita’. A causa dei limiti di tempo, posso controllare i risultati solo due volte al giorno. Questo mi porta ancora una nuova esperienza nella generazione d’immagini.

Taisuke Koyama (Tokyo, 1978) vive e lavora Tokyo. Diplomato in biologia, si dedica alla fotografia dal 2003. Ha esposto in mostre personali presso il Politecnico di Tokyo (2019); Seen Fifteen, Londra (2018); Daiwa Foundation Japan House Gallery, Londra (2016); Sunday Gallery, Zurigo (2015); METRONOM (2013). Ha partecipato a numerose mostre collettive come Moving the Image: photography and its actions, Camberwell Space, Londra (2019); Red Bull Music Festival Tokyo 2019, Spiral Garden, Tokyo; Illumintaing Graphics, Creation Gallery G8, Tokyo (2019); #005 PHOTO PLAYGROUND, GINZA SONY PARK, Tokyo (2019); Seen Without a Seer | Radical Reversibility, Looiersgracht 60, Amsterdam (2018); ANTOLOGIA, Metronom, Modena; The King and I, Palazzo Reale, Milano (2017). Ha ottenuto una residenza presso la Setouchi Triennale a Shodoshima JP (2013) e ha vinto il premio del 15° Japan Media Arts Festival di Tokyo (2012). Nel 2018 ha preso parte con il solo show Waves and Particles, a Paris Photo nella sezione Prismes e a Seul Photo Festival. 

Duncan Wooldridge (Hitchin, United Kingdom, 1981) è un artista, scrittore, curatore e direttore del corso in Fine Art Photography al Camberwell College of Arts, University of the Arts di Londra. Scrive regolarmente per 1000 Words, Foam, Elephant, ArtMonthly e Artforum. Il suo ultimo progetto curatoriale, Moving The Image, Camberwell Space, Londra (2019) ha compreso lavori di Lou Cantor, Liz Deschenes, Discipula, Kensuke Koike, Taisuke Koyama, Louise Lawler, John MacLean, Sarah Pickering, Clare Strand, Dayanita Singh, Dafna Talmor, Edouard Taufenbach, Corinne Vionnet e altri.

Immagine: Waves and Particles, Metronom 2019 (installation view)

28/06/2019